Le storie antiche del mare, tra pragmatismo del lavoro e tensione al sacro, rivivono in Diario di tonnara di Giovanni Zoppeddu, in Selezione Ufficiale alla Festa di Roma. Un documentario, prodotto e distribuito da Luce Cinecittà, che prende ispirazione dall’omonimo libro di Ninni Ravazza che ripercorre i vent’anni, a partire dal 1984, in cui è stato il sommozzatore della tonnara siciliana di Bonagia, una delle più produttive e rinomate del Mediterraneo, che oggi vive solo nei ricordi degli anziani tonnaroti. Una comunità sviluppata sul mare e che dal mare ha mutuato leggende e riti magici, divisa tra fatica del vivere e propensione alla sacralità che deriva da un contatto stretto con la natura, fonte della propria sussistenza. Un mondo ancorato alla tradizione che fatica ad essere ricordato, fatto di valori primordiali, di ritualità e di storie tramandate di generazione in generazione. Un affresco di vita fatto di esaltazioni e sconfitte, speranze e delusioni che hanno scandito l’esistenza quotidiana dei pescatori del tonno, Diario di Tonnara catapulta lo spettatore all’interno di un mondo ricco di fascino che sembra essere destinato al cantuccio della tradizione. Rais, tonnare e tonnaroti sono il centro da cui si dipanano i racconti di un tempo passato che, grazie al potere del cinema, riemerge dall’oblio e che attraverso superbe immagini di repertorio dell’Archivio Luce realizzate da maestri come De Seta, Quilici, Alliata, racconta anche un pezzo profondo di storia del nostro cinema.
Da dove viene l’idea di raccontare il mondo della tonnara e le sue storie legate della Sicilia del mare?
La componente del mare, per me che sono sardo, è da sempre qualcosa di fondamentale. Anni fa, facendo un programma itinerante per la Rai, mi sono trovato a Bonagia, un borgo decadente, pieno di barconi trasandati e un po’ arrugginiti. Mi sono chiesto cosa fosse, si vedeva che era stato qualcosa di importante. Ho iniziato così le mie ricerche che mi hanno portato al libro di Ninni Ravazza che ripercorre i venti anni in cui è stato il sommozzatore della tonnara. Nel suo racconto ho trovato storie di personaggi semplici, che per le persone del borgo però diventavano mitici.
La vita dei pescatori di tonni è un universo peculiare, in cui concretezza e la fatica fisica abbracciano contemporaneamente rituali sacri e magia.
Il pescatore di tonnara è diverso dal pescatore normale, che butta le reti e, volendo, le può spostare. Il pescatore di tonnara costruisce una struttura fissa molto complessa, ed aspetta che il pesce arrivi. In questo senso i pescatori di tonno sono più vicini ai riti della natura, sono i contadini del mare. Se il tonno arriva è un bene, altrimenti è un problema, e attorno a questo si crea un sistema di sacralità e di rituali magici che servono a ingraziare la fortuna.
Che cosa rappresentano le ultime tonnare che ancora oggi resistono e praticano questa antica tipologia di pesca, nonostante l’avvento della pesca industriale?
Rappresentano un lumicino, uno scontro con la società moderna. Da un certo punto in poi c’è stato una sorta di blackout antropologico, ci sono cose che non esistono più e di cui quasi ci vergogniamo, come le facce scavate dal lavoro, la fatica. Loro continuano e portano avanti una tradizione scomparsa, la cosa sorprendente è che ci sono anche ragazzi molto giovani che lo fanno. Vivono con i ritmi della natura e sono un qualcosa che riporta, almeno in parte, a quel tempo.
Cos’è la “raisìa” di cui si parla nel documentario?
Un termine andato in disuso per raccontare tutta l’arte e la maestria del rais, che è sia capacità tecnica che personale. Non tutti i pescatori diventano rais, persone che riescono a comandare senza essere autoritari, riuscendosi a farsi amare dalle persone che hanno intorno, a farsi seguire anche in situazioni pericolose. Come il rais di Carloforte, che riesce ad essere duro ma anche a far divertire i pescatori al momento delle fatiche.
La tonnara è un antico metodo di pesca forse crudele ma certamente ecosostenibile, attende e seleziona la preda a differenza della pesca industriale. Un cambiamento che fa riflettere sul rapporto tra uomo moderno e natura, caratterizzato da un dominio incondizionato.
Con il metodo della tonnara non prendi tutti i tipi di tonni, non è una caccia al tonno. È la preda che arriva, possono esserci stagioni da duecento tonni o da cento, dipende dalla natura, con cui c’è un rapporto importante. Anche quello che a noi oggi sembra uno spettacolo raccapricciante, la mattanza, era in realtà un processo naturale, la sopravvivenza di una specie che si alimenta di un’altra e lo fa in maniera sostenibile, prendendo dal mare solo il necessario per il suo sostentamento.
Una perdita di radici che riflette anche una, tutta moderna, inconsapevolezza della filiera alimentare.
Io lo chiamo processo di geometrizzazione del cibo, che troviamo ormai in scatoletta al supermercato, sempre disponibile, a cui abbiamo libero accesso senza doverci chiedere da dove provenga. L’industrializzazione ha fatto sì che ci allontanassimo da quella che è la ricerca del cibo reale, qualcosa che per le comunità di pescatori di tonno era ben chiaro.
Nel documentario straordinarie le immagini dell’Archivio Luce realizzate da maestri del cinema come De Seta, Quilici, Alliata. Come si è rapportato a questo prezioso materiale di repertorio?
Inizialmente avevo paura di andare a scomodare mostri sacri come De Seta o Quilici. Insieme al montatore, poi, abbiamo scelto di utilizzare i materiali di repertorio nei momenti in cui il racconto diventa onirico o mitologico. Quelle immagini riescono a far crescere il livello del racconto in maniera esponenziale, lasciano sospesi ad aspettare per cercare di capire il momento. Uno sguardo cinematografico diverso, uno slancio che viene anche dal contrasto con le immagini moderne che, volutamente, non abbiamo voluto avvicinare nello stile nemmeno in post-produzione.
Nel dare testimonianza di un mondo millenario che sta scomparendo, c’è il valore anche pedagogico di questo film.
Penso che sia un documentario che andrebbe fatto vedere ai giovani, si parla di un mondo quasi scomparso, di cui fra un po’ non ci sarà più traccia. C’è poi anche un pezzo profondo della storia del nostro cinema che è importante recuperare, per far in modo che non venga messo da parte. Un tempo e un cinema che a volte possiamo sentire perduti, ma che devono rimanere accanto a noi.
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