Arrivato a sorpresa alla candidatura all’Oscar 2015 (e fu il polacco Ida ad aggiudicarsi la statuetta del miglior film straniero) Tangerines è stato anche il primo film estone ad avere la nomination nella storia. In realtà avrebbe potuto a buon diritto rappresentare la Georgia, paese in cui è stato girato dal regista georgiano Zaza Urushadze, figlio di un famoso calciatore, già autore di diversi lungometraggi, molto conosciuto e apprezzato in patria (è anche presidente dell’Accademia del cinema). “Ma Tangerines è il risultato di una vera coproduzione tra Estonia e Georgia, al 50%, tanto è vero che l’Academy non sapeva come collocarlo e ha rischiato di essere squalificato: alla fine ha rappresentato l’Estonia ma poteva essere il contrario”, spiega. Un destino che va oltre le identità nazionali e che ben si adatta a questa pellicola, forte richiamo al pacifismo e alla comprensione tra i popoli.
Siamo nel 1992, al culmine del conflitto tra la Georgia e la Repubblica separatista dell’Abcasia. In una zona rurale abitano l’anziano Ivo (Lembit Ulfsak) e il suo vicino Margus (Elmo Nüganen), gli unici estoni rimasti a vivere lì nonostante il conflitto. Margus aspetta di fare l’ultimo raccolto di mandarini, prima di prendere l’aereo per Tallinn, mentre Ivo, un falegname che costruisce cassette per la frutta, non sembra intenzionato a lasciare la sua casa. Ed è proprio lì che darà rifugio a due soldati feriti, un mercenario ceceno, di religione musulmana, e un giovane georgiano, dunque cristiano, che ha una scheggia di granata nel cranio. Ahmed (Giorgi Nakashidze) e Niko (Mikheil Meskhi) saranno costretti a condividere il tetto e la tavola e a non farsi del male per rispettare le regole di convivenza imposte da Ivo.
“È davvero inquietante – spiega il regista – pensare a quanto irresponsabilmente i politici scatenino guerre che finiscono per mandare la gente comune a morire. Persone normali, che amano la vita e hanno costruito le loro esistenze con fatica e passione. La morte di un essere umano è irreversibile, ma per i politici è solo una questione di statistiche. E spesso, inoltre, la ragione alla base di un conflitto è del tutto arbitraria e artificiale. Questo film è il mio tentativo di dimostrare quanto anche i più acerrimi nemici possano superare questa ostilità innaturale e fermare un massacro istituzionalizzato. Si tratta di una questione di fiducia nella bontà umana che alla fine può e deve prevale, se le persone sono in grado di perdonare, aiutarsi e proteggersi l’un l’altro. Anche a costo della propria vita”. Tangerines uscirà in Italia il 26 maggio con la P.F.A. Films di Pier Francesco Aiello. Domani sarà proiettato al Cinema Comunale di Matera in occasione del V Meeting Internazionale del Cinema Indipendente e tra i premi al suo attivo c’è anche quello per la regia vinto al Bif&st di Bari del 2014. Abbiamo incontrato il regista alla Casa del Cinema in occasione di una proiezione alla presenza delle due ambasciatrici, della Repubblica di Georgia presso la Santa Sede Tamara Grdzelidze e dell’Estonia a Roma Celia Kuningas-Saagpakk.
Da cosa nasce il plot di Tangerines?
All’inizio non pensava di trattare questo tema, quello della guerra degli agrumi, la guerra tra la Georgia e l’Abcasia, perché è un argomento molto doloroso per il popolo georgiano. È stato il coproduttore estone, che avevo incontrato in occasione della mia partecipazione a un festival, che mi ha suggerito di parlare dell’emigrazione estone in Georgia. Così, dopo qualche perplessità, ho trovato la storia di Ivo, questo vecchio estone che dà riparo sotto il suo tetto a due nemici. La sceneggiatura mi è venuta di getto, in due settimane, quindi ho avuto il supporto di Eurimages e ci sono stati cinque mesi di preparazione in cui abbiamo costruito tutto… a parte gli alberi di mandarini.
Come ha scelto gli attori? E come li ha amalgamati?
Sono tutti attori di grande valore e capaci anche di ironia: un georgiano, un ceceno e due estoni. Ciascuno di loro, nel suo paese, è considerato una star, in particolare Lembit Ulfsak, cioè Ivo, è un attore famoso del periodo sovietico, ha lavorato sia al cinema che a teatro in un centinaio di produzioni ed è stato insignito del titolo di miglior interprete estone del secolo. Io lo conoscevo da quando ero piccolo.
Il film è un apologo morale fuori dal tempo, nonostante parli di un conflitto ben preciso ha connotati assolutamente universali, potrebbe trattarsi di qualsiasi guerra, di qualsiasi zona di confine.
È bene che sia così, credo sia la forza del film, anche se non sapevo che avrebbe avuto questa universalità fin dall’inizio, non è qualcosa di voluto. L’importante è avere un cuore sincero e un pizzico di talento.
Il messaggio pacifista arriva in modo forte e chiaro allo spettatore. Oggi si parla molto di guerre e in particolare di guerre di religione. La religione è vista come qualcosa che può creare inimicizia tra le persone e tra i popoli, ma il suo film ribalta questa prospettiva.
La religione ha un grande significato per ogni popolo, è un elemento fondamentale della cultura e dell’identità. Noi georgiani siamo cristiani e questo ci contraddistingue. È importante essere religiosi ma non bisogna andare oltre nella direzione del fanatismo perché è il fanatismo a creare conflitti. Nel film siedono attorno al tavolo di Ivo non solo due soldati ma anche due uomini che appartengono a due religioni diverse, un cristiano e un musulmano, eppure alla fine trovano la lingua comune, quella dell’amore.
Direi anzi che nel momento in cui entrambi riconoscono che l’altro ha una pratica religiosa, nasce tra loro un rispetto e un senso di riconoscimento che prima non c’era. La religione da fattore divisivo diventa un elemento che umanizza le persone.
So di essere un utopista, ma mi considero un umanista. Penso che la religione non debba dividere perché noi esseri umani siamo tutti uguali, tutti abbiamo il cuore, la capacità di amare e non di fare la guerra. È un messaggio rivolto a ogni persona indipendentemente dalla sua religione. Noi esseri umani tendiamo a dimenticare che la vita è molto breve.
Ci racconta l’esperienza dell’Oscar?
Il mio film ha vinto tanti premi, credo venticinque, ma l’Oscar è diverso, è un altro livello del successo e sicuramente ha permesso a Tangerines di arrivare in tutto il mondo. Anche io da piccolo lo guardavo come qualcosa di irraggiungibile e ancora adesso non ci credo. È stato una favola. Siamo stati quattro mesi in America, abbiamo avuto anche la nomination al Golden Globe, abbiamo vinto il Satellite Award.
Come si colloca nella grande tradizione del cinema georgiano. Si sente vicino a qualcuno o si considera un outsider?
Faccio pienamente parte di quella tradizione, ma tra i miei punti di riferimento c’è anche il cinema italiano e in particolare Federico Fellini. Film come La strada, Le notti di Cabiria e 8 ½ hanno contribuito a farmi diventare regista.
Il suo prossimo film sarà americano?
No, perché la mia visione del cinema è totalmente differente, è legata al cinema d’autore. Il governo georgiano, dopo la candidatura all’Oscar, mi ha dato carta bianca per un nuovo progetto, che sarà sempre una coproduzione con gli estoni, ma maggioritaria e avrà finanziamenti statali. Sarà un dramma ma non parlerà della guerra.
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