Esce in Italia il 23 dicembre, appena prima di Natale, il West Side Story di Steven Spielberg, da una sceneggiatura del vincitore del Premio Pulitzer e del Tony Award Tony Kushner. Il musical lo si conosce, una sorta di Romeo e Giulietta tra feroci rivalità e giovani amori nella New York del 1957 che ha fatto la storia di Broadway, ideato, diretto e coreografato da Jerome Robbins, con libretto di Arthur Laurents, testi di Stephen Sondheim e musiche di Leonard Bernstein.
Questa versione è interpretata da Ansel Elgort (Tony); Ariana DeBose (Anita); David Alvarez (Bernardo); Mike Faist (Riff); Brian d’Arcy James (Agente Krupke); Corey Stoll (Tenete Schrank) e Josh Andrés Rivera (Chino); con Rita Moreno (nel ruolo di Valentina, proprietaria del negozio in cui lavora Tony); e per la prima volta sullo schermo Rachel Zegler (María). Moreno, una degli unici tre artisti ad aver vinto i premi Oscar, Emmy, GRAMMY, Tony e Peabody, è anche una dei produttori esecutivi del film.
Spielberg teneva tanto a questo progetto da abbandonare le riprese del quinto capitolo di Indiana Jones, saga da lui ideata insieme a George Lucas, lasciandolo nelle mani di James Mangold.
Il film viene presentato con una conferenza/junket internazionale via Zoom.
“Si tratta probabilmente del film più arduo della mia carriera. West Side Story vanta quella che è forse la più grande partitura musicale mai scritta per il teatro e ognuno di noi ne è assolutamente consapevole – ha detto il regista – Prendere un capolavoro e rivisitarlo da un’altra prospettiva e con un’altra sensibilità, senza compromettere l’integrità di quella che è generalmente considerata la più grande partitura musicale mai scritta per il teatro, era piuttosto spaventoso. Ma sono convinto che le grandi storie debbano essere raccontate all’infinito, in parte anche per rispecchiare prospettive e periodi storici differenti. Adoro il film originale diretto da Robert Wise insieme a Jerome Robbins. Wise è stato un mio carissimo amico per molti anni e ho parlato del film con lui fino alla nausea. E Walter Mirisch, il produttore del West Side Story del 1961, è un altro mio carissimo amico che mi ha raccontato tantissime storie grandiose sulla realizzazione del film. Devi continuamente giustificarti con te stesso per aver voluto affrontare un’opera che è considerata quasi sacra. Tutti noi lo abbiamo fatto. Sapevamo che si trattava di un’impresa davvero rischiosa. Ma tutte le persone coinvolte si sono avvicinate a questo progetto con incredibile amore e rispetto, quasi venerazione, nei confronti dello spettacolo e dei suoi leggendari creatori. Ma sapevamo anche di dover realizzare un film adatto ai nostri tempi, con una comprensione contemporanea e valori contemporanei con cui siamo tutti d’accordo. La cosa più bella di questa storia è che, indipendentemente dai cambiamenti che avvengono nel mondo, ci offre lezioni universali. È una storia che cattura il pubblico da decenni, perché non è semplicemente una storia d’amore, ma anche un lavoro culturalmente significativo con una premessa centrale (ossia che l’amore può sconfiggere il pregiudizio e l’intolleranza) che non ha perso significato nel corso del tempo. West Side Story ha un significato importantissimo per tantissime persone e sono emozionato di poterlo riportare nuovamente in vita e condividerlo con un nuovo pubblico. Saltavo sulla sedia e cantavo col cast quando seguivo il film da bambino e così ho fatto oggi durante le prove, però solo durante le prove. Mentre giravo ero così concentrato che non battevo nemmeno il piede. Una volta a tavola con i miei ho cantato “mio padre è un bastardo”, e li ho fatti infuriare. Sul set volevamo cantare e ballare insieme, ci influenzavamo l’un l’altro per l’atmosfera, per la coreografia, e per tutto”.
New York è un’autentica protagonista e la ricostruzione sembra fantastica: “La città di settant’anni fa ancora esiste – spiega Spielberg – La puoi trovare a Brooklyn, nel Queens, nel Bronx… e abbiamo girato solo dove i palazzi non erano cambiati, il solo lavoro digitale che abbiamo fatto è stato all’inizio del film e il ritocco di qualche dettaglio come le barre di sicurezza alle finestre, che ai tempi non c’erano. Combattono per la razza ma anche per il territorio e volevo che fosse all’ombra delle palle di demolizione. E’ una lotta politica. In tutte le scene abbiamo sentito di dover essere assolutamente perfetti. Sentivamo che tutte le scene contribuivano alla riuscita della storia, tutte le scene avevano un ruolo centrale nella celebrazione della vita all’interno della tragedia.
La conferenza inizia proprio nel ricordo di Stephen Sondheim, recentemente scomparso.
Kushner dice “quando Steven mi ha chiesto di farlo mi sembrava un’impresa impossibile dato quanto era amato il predecessore. Ci abbiamo lavorato per quattro versioni della sceneggiatura. Non c’è proprio niente di datato nell’opera originale. La musica è adorabile e fantastica e sembra che tutto stia succedendo solo ora. Quindi non c’è niente di stonato o antiquato. Tutto tranne lo spagnolo, niente era detto in spagnolo, questa l’unica differenza (uno spagnolo tra l’altro – ha spiegato Spielberg – volutamente senza sottotitoli, un omaggio alla cultura ispanica e all’America oggi di fatto bilingue)”.
Una parte di conferenza è invece dedicata al cast. Il protagonista Ansel Elgort ammette “non ero il miglior ballerino sulla scena, ma sono stato aiutato a dare il meglio”. David Alvarez dice che “recitare una parte così difficile è stato spaventoso, ma è anche una sfida che ti incoraggia a credere in te stesso. Spielberg mi diceva ‘chiamami Steven perché da oggi io ti chiamerò Bernardo, come il tuo personaggio. Voleva che trovassi la mia voce per il personaggio”. Mike Faist dichiara che “sotto la paura c’è un background di questi ragazzi che non hanno una famiglia, stare insieme li porta a un rapporto tossico, ma è l’unica cosa che hanno. La città sta cambiando e loro non riescono ad accettare il cambiamento, è paura, ma con sotto un certo livello di amore, abbastanza complicato”. Josh Andrés Rivera commenta “è il mio primo film e già lavoro con Steven Spielberg, mi sembra un bel modo di rappresentare Portorico”. Corey Stoll dichiara che “il lavoro dello sceneggiatore è stato eccezionale, non si tratta solo della razza ma della maniera sistemica in cui il potere si installa nella società. Non è solo razzismo ma il rapporto tra questo e il potere”. Bryan d’Arcy James sottolinea che “guardarlo ed essere parte del tutto è eccezionale”. Rachel Zegler aveva già interpretato Maria a teatro e racconta “l’ho recitata per nove anni. I miei amici mi incoraggiavano. Mi hanno chiamata circa un anno dopo aver mandato il mio primo nastro di prova, Spielberg si è perfino scusato per il tempo d’attesa. La città è un personaggio, e non hai mai familiarità con la New York di qualche anno fa, conosci quella di oggi, bisognava tenere conto del clima politico, lavoro fatto in maniera eccezionale in sceneggiatura. Ho scelto di non guardare il film precedente per non lasciarmi influenzare, dovevamo ri-raccontare tutto da una prospettiva fresca. Spielberg non ci ha particolarmente incoraggiati a riguardarlo o a non farlo, è stata una scelta”. Ariana DeBose racconta “avevo visto il film degli anni Sessanta a suo tempo ma non mi sono riferita a quello, lo avevo nella memoria e mi sono riferita soltanto all’occhio della mente. La prima volta che ho incontrato David, che è l’attore con cui più mi relaziono, eravamo in uno studio di New York, ci siamo detti solo ‘ciao’ ma avevo l’impressione di conoscerlo bene. E lui, dopo l’audizione, mi ha detto ‘mi sa che ci rivedremo presto'”.
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