Wes Anderson adatta Roald Dahl e ammira Hitchcock

The Wonderful Story Of Henry Sugar presentato Fuori Concorso: dall’omonimo scritto, un cortometraggio che conferma la personalità visionaria e creativa dell’autore, anche Premio Cartier Glory


VENEZIA – Un’amatissima storia di Roald Dahl, da una sua raccolta di sette racconti: The Wonderful Story Of Henry Sugar, secondo adattamento dallo stesso autore, dopo Fantastic Mr Fox. Senza mettere mano al titolo né alle parole precise del suo autore originale, ma portando la sua inconfondibile personalità, Wes Anderson presenta Fuori Concorso un cortometraggio (32’) interpretato da Ralph Fiennes (Roald Dahl), Benedict Cumberbatch (Henry Sugar) e Ben Kingsley (Imdad Khan).

I colori primari e i suoi comprimari, il gioco cromatico tipico della visione di Wes Anderson per questo adattamento a cui s’è dedicato per due decenni: “ho conosciuto la famiglia Dahl 20 anni fa, quando stavamo girando Fantastic Mr Fox. Sono cresciuto adorando Dahl e Henry Sugar, era tra i miei preferiti ma non sapevo come adattarlo, poi Luc Kelly ha preso le redini della gestione dei diritti per me. Io volevo mantenere il linguaggio che Dahl usa, che gli attori usassero le sue parole”.

La storia dello scrittore – in scena appunto – è quella di un uomo molto ricco (Sugar) messo a conoscenza dell’esistenza di un guru (Kahn) in grado di vedere senza usare gli occhi, così – nella sua dimora londinese, nel 1959 – decide di imparare a padroneggiare questa tecnica per barare al gioco d’azzardo.

Sullo schermo quinte mobili, pareti che si alzano e si abbassano, elementi scenici dichiarati, visioni estetiche come fossero collage, per un immaginario che conferma l’originalità e la coerenza a sé del regista texano, quanto la perenne immagignifica capacità di incantare lo spettatore con storie dallo spirito onirico quanto dense di profonde connessione con il senso valoriale delle cose della vita.

“La teatralità per me spesso diventa realtà, la sento come realtà. Quando si fa un film si crea illusione e mi piacciono i film in cui si vede dove il cineasta ha creato quel momento. Un film è in un certo senso in un documentario di ciò che accade in quel momento. Io voglio dire cosa accada veramente davanti alla macchina da presa, in un modo un po’ teatrale. Il film si concentra sulla dizione di grandi attori, così mi serviva una scenografia che evolve, è un modo di animare un testo in modo cinematografico”.

“Volevo girare questa storia. La maggior parte dei film parte da zero, quando invece si adatta c’è già una cosa davanti a te: volevo farla nel modo più efficiente possibile. Girarlo ha richiesto due settimane e mezza, non è un’impresa come il lungometraggio. È a metà strada tra il teatro e il cinema, ma è un film. Mr. Fox e Henry Sugar sono adattamenti, altri miei film sono più ispirazioni. Quando adatti un libro hai già un tracciato, sai dove andrai a finire: in una sceneggiatura originale c’è improvvisazione e fa domandare se si arriverà alla fine. Ci sono cineasti che hanno fatto solo adattamenti nella carriera”.

Per Henry Sugar, Anderson ha scelto “un cast completamente inglese, dovevano essere persone capaci di assorbire un testo e recitarlo, e esistono pochissime persone al mondo, e sapevo che Ralph sarebbe stato in grado. Sceglierlo è stato istintivo. Mi piace dare le parti ad attori che tornino con me, come una riunione. Fa sempre parte di un’idea di compagnia teatrale. Gli altri attori e Ralph avranno ruolo anche in altri corti”.

Roald Dahl è uno di quegli autori per cui è stata mossa la richiesta di modificare alcuni suoi contenuti nel nome del politicamente corretto: “se mi chiedessero se Renoir debba essere corretto direi no. Capisco le motivazioni alla basa della richiesta, ma quando una cosa è fatta è fatta, non vedo perché chiedere di modificare ad un autore un’opera, o farlo di un autore che non c’è più”.

E, a proposito di cose originali, artigianali, Anderson spiega ancora che “le immagini generate al computer sono qualcosa di simile all’animazione: in Henry Sugar non penso a niente che definirei immagini computerizzate, abbiamo rifinito le immagini, come un uccellino volato in un’inquadratura, che abbiamo tagliato e messo altrove. È una possibilità rivoluzionaria. L’animazione la facciamo con la stop motion, non vorrei vedere sul set uno schermo verde, preferisco girare con quello che si può portare lì”.

Ma il mondo cinematografico di Wes Anderson, texano che vive a Parigi, da dove arriva, quale cinema l’ha sfamato per approdare alla costruzione di un universo tutto proprio, ripetibile, ripetuto, eppur ogni volta affascinante? “Saper parlare la lingua ti rende un regista migliore. The French Dispatch l’abbiamo creato con un bilinguismo non cooperativo: si conversa senza usare la stessa lingua. Spesso questo è il modo in cui comunichiamo e io quasi sempre mi sento straniero: qui vorrei disperatamente parlare italiano. Fino a 22 anni sono stato quasi solo in Texas, il perimetro della mia vita era compatto. Ma il cinema ti porta ovunque, era il mio modo di uscire e, più uscivo e più volevo andare in là. A Parigi fare una passeggiata può essere come andare al cinema: mi piace l’esperienza di essere fuori dal luogo in cui vivo.Quando ero giovane la Beta Max aveva pubblicato tutti i film di Hitchcock degli Universal Studios, su ogni cassetta c’era una foto sua con scritto: l’ha fatto lui. Amavo i film per la suspense, per la voce, la chiarezza e un certo mood, e questo è in parte perché volevo essere qualcosa di simile a lui. La finestra sul cortile è uno dei miei preferiti, amavo l’atmosfera dell’appartamento, e la dinamica dei personaggi”.

Infine, rispetto allo sciopero statunitense, Anderson dichiara: “io faccio parte sia del sindacato attori che di quello registi. Non ho risposte o suggerimenti, credo vada raggiunto un accordo equo per andare avanti, ci sono persone che stanno soffrendo; forse per i registi è meno complesso arrivare a un accordo”.

Su Netflix dal 27 settembre.

di Nicole Bianchi

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02 Settembre 2023

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