VENEZIA – L’operosità cinese e la deformazione disumana della dedizione al lavoro: Wang Bing con Youth: Homecoming (Qing Chun: Gui), unico documentario in Concorso a Venezia81, completa la trilogia – iniziata oltre 10 anni fa – che esplora le vite della classa operaia del suo Paese, testimone di come il guadagnare denaro sia diventata ormai l’unica ambizione di questa società che ha fatto corrispondere la vita quotidiana alla sola abnegazione al mestiere.
L’autore cinese dice “grazie alla Mostra di Venezia per aver scelto il film in competizione, perché è un film piccolo, un documentario. Nel 2016 siamo stati qui con Bitter Money, che trattava già il tema degli operai, e siamo felici che in tutto questo tempo ci sia stata la possibilità di sviluppare un arco di racconto ampio e lungo. Dal 2014 fino al 2019, vicino a Shanghai, abbiamo fatto le riprese al distretto di Zhili e per me lavorare su questo tema, nel delta del Fiume Azzurro, è significato coronare un immaginario, conoscere un territorio: un’esperienza molto significativa. La Cina la guardiamo tutti da diversi punti di vista, tutti la riconosciamo per il suo veloce e grande sviluppo, ma esistono queste classi sociali che lavorano in condizioni pesantissime, in un ambiente molto difficile, e in loro puoi osservare una certa scissione dell’animo, in un Paese in cui – da una parte – è bello ci sia così tanto sviluppo, ma altrettanto siamo davvero in tanti, e tutto questo crea un enorme peso, che io ho sentito nel portare fino a compimento questo progetto”.
Certo, in Cina il lavoro è garante di sopravvivenza, la maggior parte delle persone è votata alla causa con alacre adesione, per riuscire a mantenersi, anche perché i compensi sono molto bassi, a fronte di giornate che hanno un inizio ma spesso sembrano non avere una fine, e il tempo per recuperare, per riposare, tanto meno per praticare il proprio tempo libero, è praticamente nullo nella sostanza.
Sono tre i capitoli – Youth (Spring), Youth (Hard Times) e Youth: Homecoming – e “nella progettualità dei film, dopo Dead Souls (2018), ho pensato: che film vorrò fare in futuro? Mi interessavano i lavoratori, gli operai, ex contadini, cosa concretizzata con Youth: Homecoming. Sono cresciuto in un’infanzia in cui i vicini e i parenti erano tutti come i protagonisti che racconto, quindi, da regista, ho pensato che raccontare quello che accade lungo tutto il Fiume Azzurro fosse un documento, che posso lasciare come eredità; magari non è accattivante come plot, ma è veritiero, e personale, perché verso questi luoghi, queste persone, questa Nazione, ho lasciato una memoria”.
Sullo schermo, il Capodanno è imminente e durante la festività chiudono anche i laboratori di manifattura tessile di Zhili: pochi operai disperati – quasi come fantasmi vagabondi – animano lo spazio in attesa di ricevere il salario per poter partire; Bing segue i lavoratori che colgono l’eccezionale occasione per tornare dalle loro famiglie, sparse dalle montagne dello Yunnan alle rive del fiume Yangtze e, in questa circostanza di celebrazione dei rituali di prosperità, Shi Wei e Fang Lingping decidono addirittura sia il momento da cogliere per sposarsi: nasce un doppio principio, non solo quello di una vita affettiva insieme, ma quello di una vita professionale a cui piegarsi, sì, perché dopo il matrimonio lui – ex tecnico informatico – seguirà lei a Zhili; cambiare e imparare è complesso, ma la nuova generazione cinese non si lascia scoraggiare e si fa vittima e linfa mostruosa del capitalismo contemporaneo.
Wang Bing, accompagnando il film a Venezia, ma guardando anche al futuro, dice: “mi piacerebbe continuare nel documentario, credo sia la mia strada, conosco sempre di più questo linguaggio, mi piacerebbe migliore l’espressività di questo genere. La creatività è un impegno quotidiano, quando stavamo finendo Youth: Homecoming già sentivo arrivare nuove idee, per un prossimo progetto: probabilmente, inizieranno presto le riprese in Sud America, per un doc che riguarda i cinesi in quel luogo”.
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