Walter Bencini: i butteri non chiamateli cowboy italiani

"Mi sono sempre impegnato nel promuovere mondi agricoli tradizionali a rischio di estinzione", dice il regista de ​Gli ultimi butteri, in sala il 21 giugno con Luce Cinecittà dopo il Biografilm


BOLOGNA. Non vogliono essere chiamati i ‘cowboy italiani’. Il loro nome è butteri e vivono ad Alberese, nella Maremma toscana. Del resto questi cavalieri nei tanti pascoli del pianeta, dove sorvegliano e curano il bestiame allo stato brado, prendono nomi diversi: in Ungheria Csikós; in Argentina Gaucho, in Mongolia sono i nomadi Wuzhumuqin. E poi proprio un buttero, Augusto Imperiali, sconfisse nel 1890 il leggendario cowboy Buffalo Bill nella sfida a sellare e cavalcare alcuni puledri americani, durante il  suo tour circense italiano.

Nel documentario Gli ultimi butteri di Walter Bencini, nelle sale  dal 21 giugno con Luce Cinecittà che lo coproduce, dopo l’anteprima il 18 giugno al Biografilm Festival, a raccontare direttamente i segreti del mestiere, la fatica quotidiana, il rapporto con vacche, tori e cavalli, sono Alessandro, rigoroso capo dei butteri prossimo alla pensione, il riservato Stefano, esperto della doma, il taciturno Luca, il remissivo Giacomo, giovane agronomo, e l’ultimo arrivato, Luchino, amante degli animali fin da piccolo. Nello scorrere delle stagioni, in scenari naturali a volte poetici dominano questi uomini un po’ testardi e rudi, all’antica, fieri difensori degli animali e del territorio, solidali nel far vivere e tramandare un mestiere. Ma soprattutto i butteri promuovono e difendono un modello di allevamento tradizionale su piccola scala, gestito in modo più sostenibile, in controtendenza rispetto a quello industriale. “I piccoli agricoltori e le piccole fattorie sono una chiave della sicurezza alimentare, sono modelli di sostenibilità e santuari di biodiversità – sostiene il regista – L’agricoltura familiare con i suoi volti e le sue storie, rappresenta un modello di sviluppo legato in modo inestricabile al benessere ambientale del pianeta e alla sopravvivenza economica delle comunità locali”. Il documentario ha avuto il Premio ‘Miglior Progetto Documentario’ Pitching Forum Visioni Incontra – Festival Visioni dal Mondo 2017.

Come è nata l’idea di raccontare questa storia locale, ‘minore’? E’ in fondo il sequel del suo I cavalieri della laguna presentato alla Berlinale 2014 a Culinary Cinema?

Negli ultimi 10 anni mi sono sempre impegnato nel promuovere mondi agricoli tradizionali a rischio di estinzione, e con il successo del film precedente è stato abbastanza naturale approfondire anche quel mondo. I Butteri oltre a essere l’icona della Maremma, sono gli ultimi allevatori bovini a cavallo italiani, e come i pescatori della laguna di Orbetello, sono depositari di un sapere antico che rischia l’estinzione, un sapere che è completamente diverso da altre realtà sparse nel mondo. Anche se possono sembrare simili, come ogni cultura, anche questa ha la sua personalità.

Il suo film è una risposta al mondo globalizzato, all’agricoltura su scala industriale?

Se consideriamo la crisi che stiamo vivendo in questo momento, in cui il sistema di produzione industriale di carne sta incidendo negativamente sulla vita di questo pianeta, diventa fondamentale mettere in luce e promuovere dei modelli di produzione alimentare alternativi. Questa azienda ne è un esempio perché, da generazioni, riesce a vivere del proprio lavoro, tutelando il benessere animale e un ecosistema delicato che non sopporta l’invadenza dell’uomo e che necessita di cura e attenzione. La logica delle realtà locali come questa, in un mondo globalizzato, fatto di cifre astronomiche, può sembrare insignificante, anacronistica, eppure è l’unica via percorribile, se si vuole ritrovare un rapporto armonico con la nostra madre terra. Bisogna riconcepire un sistema basato sulla produzione locale. Anche la scienza dell’evoluzione ci dice che un organismo per sopravvivere deve adattarsi a livello locale, ma per ragioni che non si comprendono, l’agricoltura scientifica esenta l’uomo da questo requisito. Se vogliamo un’agricoltura sostenibile e un stile di vita sostenibile, dobbiamo darci dei limiti , dei limiti che ci vengono suggeriti da ogni specifico territorio e ogni singola azienda. E’ questione di buon senso! Infatti questa azienda per mantenere questa qualità, non può produrre più di 100 capi da carne l’anno in questo contesto, e la carne viene consumata tutta in loco.

In passato qualcuno aveva raccontato in immagini la storia dei butteri?

Sì, Mirian Pucitta nel 1995 con il film documentario Si ruba con gli occhi. Nel suo film si vedono Stefano e Alessandro (due dei protagonisti del mio documentario) giovanissimi, e poi ci sono le interviste a Mario Petrucci (90 anni), il buttero storico icona della Maremma, che all’epoca era ancora vivo. Un bel film  più concentrato sul passato con la figura di Petrucci, che sul presente.

Prima di girare si è documentato, o subito ha privilegiato come fonti le testimonianze in prima persona dei butteri di oggi?

Mi sono documentato tantissimo, ma era fondamentale che fossero loro a raccontare e a raccontarsi.

In quante settimane ha girato e quale è stata la difficoltà più grande di questo lavoro?

Ci sono voluti due anni per finire il film, e 4 settimane di riprese. La difficoltà più grande è stata l’interazione con i butteri, riuscire ad avere una relazione, sono persone che si trovano meglio a ragionare con le vacche che con le persone, quindi c’è voluto un po’ di tempo prima che si aprissero. Un’altra difficoltà è stata quella di riuscire a filmare le vacche durante il lavoro con i butteri, sono animali selvatici non gradiscono la presenza umana, soltanto i butteri a cavallo si possono avvicinare di più, quindi per realizzare le scene dal vivo è stato complesso, anche i butteri non li potevi gestire, loro facevano il suo e io mi dovevo adattare, non c’è nulla di costruito.

Quello che racconta è un microcosmo fortemente maschile, orgoglioso della propria identità. Si è imbattuto in una donna che ha chiesto di diventare buttero?

E’ una possibilità prevista nel ‘regolamento’ di questo microcosmo? Non esiste almeno per ora, che io sappia una donna buttero. Nel regolamento non ci sono preclusioni, ma dovrebbe essere molto mascolina. Se il lavoro del buttero fosse rimasto quello di una volta cioè lavorare solo a cavallo, lo potrebbe fare anche una donna. Oggi il buttero fa molti più lavori ed è molto faticoso anche per gli uomini. Quindi la vedo dura per una donna, comunque non impossibile.

Il film non tocca il rapporto dei butteri con il mondo circostante, gli abitanti di quella zone. La sensazione è quella di un universo chiuso in se stesso, nell’orgoglio di un mestiere antico, a rischio di estinzione?

Il rapporto dei butteri con l’esterno c’è ovviamente però è più contenuto rispetto ad altri posti, il paese di Alberese vive di turismo e agricoltura, quindi c’è movimento di gente, ma nel caso dei butteri il contatto è marginale. Per certi aspetti è anche la loro salvezza perché cosi riescono a mantenere più integra questa tradizione che rischia l’estinzione.  In questo caso poi è fondamentale perché è un esempio di come si può produrre carne in maniera sostenibile. I butteri esprimono in pieno la loro terra, la Maremma sta avendo negli ultimi 20 anni un grande successo a livello turistico proprio per il fatto che si è mantenuta più vera di altre parti. Il processo di modernità, in questi posti a avvenuto in maniera più lenta, e questo oggi è diventato un vantaggio. 

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