Vicente Ferraz: “Quando il cobra fumò”

Sergio Rubini è tra i protagonisti di Road 47, il film distribuito da Istituto Luce Cinecittà che rievoca un episodio dimenticato della seconda guerra mondiale


Uno degli eventi per i 70 anni della Liberazione è l’uscita, quasi in contemporanea dai due lati dell’oceano, di Road 47, il film di Vicente Ferraz che rievoca un episodio dimenticato della seconda guerra mondiale. La presenza nel nostro paese, ancora occupato dai tedeschi, di contingenti militari brasiliani. Queste truppe mal equipaggiate e impreparate ad affrontare il gelo dell’Appennino innevato, si trovarono catapultate sulla Linea Gotica. Ora la pellicola, coprodotta dalla Verdeoro dell’italiano Daniele Mazzocca, con contributi del MiBACT e della Friuli Venezia Giulia Film Commission, arriva in sala nella settimana del 25 aprile (in versione originale con sottotitoli) con Istituto Luce Cinecittà, mentre in Brasile sarà nei cinema il 7 maggio, alla vigilia della festa per la fine del conflitto.

Presentato al Festival di Bari e in varie rassegne latinoamericane, tra cui il Festival de L’Avana, dove ha ottenuto il premio Signis, Road 47 narra la piccola epopea di un reparto di genieri della Forza di Spedizione Brasiliana (FEB) che dopo l’esplosione di una mina e la morte di due soldati, si trova sbandato sulle montagne. L’incontro con un repubblichino in fuga (Sergio Rubini), con un corrispondente di guerra brasiliano e con un sergente tedesco che viene fatto prigioniero e trasportato sulle montagne, nonostante sia ferito, punteggiano questa avventura bellica che ha ben poco di glorioso e mette piuttosto in luce la profonda umanità di questi uomini “prestati” alla guerra. Abbiamo incontrato Vicente Ferraz, noto soprattutto per un documentario, Soy Cuba O Mamute Siberiano, presso l’Ambasciata brasiliana di Roma, in Piazza Navona, dove oggi si inaugurava una mostra di cimeli bellici della FEB (resterà aperta fino al 28 aprile) alla presenza di molte autorità militari e di qualche reduce. Mentre nella pellicola si vedono bellissime immagini di repertorio degli archivi americani. 

Il film, almeno da noi, colma una lacuna storica. Della partecipazione di truppe brasiliane al secondo conflitto non si sapeva nulla in Italia. E in Brasile?

Non molto, in effetti. Eppure, quando abbiamo aperto su Facebook la pagina dedicata al film, abbiamo scoperto che ci sono tanti appassionati, sia perché avevano una qualche relazione con i combattenti, sia per altri motivi. Abbiamo avuto 12 mila “like” e abbiamo raggiunto una platea di un milione di persone.

In Italia il film ha ottenuto il riconoscimento della presidenza del Consiglio, da voi è stato “adottato” dalle istituzioni?
Abbiamo avuto il totale appoggio del ministero della Difesa brasiliano e l’8 maggio, anniversario della pace, è previsto un evento a Rio de Janeiro, al monumento ai caduti. I 465 caduti furono seppelliti a Pistoia e solo negli anni ’60 vennero riportati in patria. Vi furono anche 12mila feriti.

Come si è documentato: ha parlato con i reduci?
Sì, ho usato lettere e testimonianze perché non ero interessato all’aspetto storico o militare ma a quello umano. Bisogna immaginare cosa è stata questa guerra per i brasiliani di 70 anni fa che si trovarono da un giorno all’altro catapultati in un altro pianeta. Per questi giovani era un’odissea, non sapevano nulla, non conoscevano l’Europa, erano arrivati in abiti civili e mandati al fronte dopo essere stati addestrati e vestiti dagli americani. Il simbolo della FEB è un cobra che fuma la pipa e questo perché il nostro presidente, Getulio Vargas, allo scoppiare del secondo conflitto mondiale aveva pronunciato le proverbiali parole: “è più facile che un cobra fumi la pipa che il Brasile entri in guerra”.

Ma allora come si spiega l’intervento, tra l’altro a fine conflitto?

Il presidente Vargas era un simpatizzante del fascismo, ma gli Stati Uniti fecero di tutto per portare il Brasile dalla parte degli alleati usando le armi della diplomazia e anche quelle degli scambi culturali, con personaggi come Carmen Miranda, che lavorava a Hollywood, mentre americani come Walt Disney e Orson Welles venivano in Brasile. Alla fine fu decisivo il finanziamento americano della principale industria siderurgica del nostro paese. Noi dovevamo essere il ponte della vittoria, la base americana verso l’Africa. In effetti loro non volevano un intervento dell’esercito brasiliano, anzi la cosa li preoccupava, perché furono loro a dover addestrare soldati che venivano da Rio o da Bahia, un esercito sgarrupato composto da 25mila uomini. Molti di loro erano neofiti della guerra.

E il film racconta proprio la semplicità e l’umanità di questi uomini mandati allo sbaraglio. Sergio Rubini dice che in questo ricorda La grande guerra di Monicelli.

Sì, avevano umanità e anche ingenuità. Le racconto come ho convinto l’attore Richard Sammel ad accettare il ruolo dell’ufficiale tedesco. Non voleva, perché dopo La vita è bella e Bastardi senza gloria gli fanno sempre fare il cattivo. Ma io gli ho detto: “guarda che verrai catturato dai soldati brasiliani”. E allora lui ha accettato, perché gli è sembrata una cosa totalmente assurda. Dicono che Radio Berlino, durante quei giorni del ’44/45, trasmettesse un avviso alle forze armate tedesche sulla Linea Gotica in cui annunciava l’arrivo di questo nuovo contingente da Napoli: “Sono aborigeni brasiliani e praticano ancora il cannibalismo”, dicevano. Preoccupati di essere divorati, i tedeschi fatti prigionieri venivano invece trattati benissimo, tanto che pare che un’intera divisione tedesca si consegnasse proprio alla FEB.

Com’è andato l’incontro con Sergio Rubini?
E’ un grande attore e un grande essere umano. Si è commosso molto leggendo la sceneggiatura e aveva amato il mio documentario Soy Cuba, distribuito dalla Fandango. La faccia di Rubini è uno dei punti di forza del film e poi era giusto che in un’opera girata in Italia ma dal punto di vista brasiliano, ci fosse un carattere italiano forte.

E’ stato da poco a L’Avana, dove aveva studiato regia negli anni ’80.

Ero a L’Avana il giorno dello storico incontro tra Raul Castro e il Obama e sul quotidiano Granma c’era quella foto storica in copertina e in un’altra pagina la recensione del mio film, Road 47: una copia storica che conserverò sempre. 

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20 Aprile 2015

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