Vicari: “Così l’Italia fermò il movimento no global”


BERLINO – Una bottiglietta di vetro lanciata contro un blindato della polizia va in mille pezzi, si ricompone al ralenti, si infrange di nuovo più volte. Immagine che diventa ossessione e simbolo di quell’incubo che è la notte del 21 luglio 2001 nella scuola Diaz di Genova. Per Daniele Vicari la voglia di farci un film nasce da una lunga riflessione su quella che Amnesty International ha definito “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la Seconda guerra mondiale”. E che per lui rappresenta uno spartiacque politico: “Ci troviamo a vivere una sorta di dopoguerra, dobbiamo ricostruire tutto. Al governo italiano in quel luglio 2001 è stato riconosciuto il potere di fermare il movimento no global, le cancellerie e i governi di tutto il mondo sono state a guardare senza difendere i propri cittadini: tedeschi, francesi, spagnoli, svizzeri, americani…”.

 

Adesso il mondo guarda quel film dagli itinerari produttivi complessi approdato nella sezione Panorama della Berlinale. C’è grande interesse da parte della platea internazionale per questa cruda denuncia di quelle ore di efferata violenza, una visione che mette a dura prova lo spettatore con momenti insostenibili e reiterati (e stamattina anche Captive di Brillante Mendoza, in concorso, aveva provato gli stomaci meno forti). Ma è una violenza necessaria, per il regista abruzzese, talento rivelato già dall’opera prima Velocità massima. “Quello che è successo alla Diaz e nella caserma di Bolzaneto è inaccettabile ed è talmente orribile da mettere in discussione i principi democratici dell’Italia. Nel novembre 2009, quando la sentenza di primo grado si concluse con una sostanziale assoluzione per i responsabili, una ragazza tedesca dichiarò che non avrebbe più messo piede nel nostro paese, la sua è una protesta che non può restare senza risposte”.

Ma il film, che incrocia i destini di una serie di personaggi molto diversi tra loro, non vuole essere un documentario come invece The Summit di Franco Fracassi che si vedrà qui a Berlino nei prossimi giorni. Spiega la sceneggiatrice Laura Paolucci: “Sarebbe stato più facile fare un documentario, ma abbiamo pensato che la forza di un racconto potesse parlare anche a quelli che non conoscevano questa storia: questi eventi sono talmente incredibili che non sembrano veri. All’inizio volevamo cercare la verità del fatto storico studiando le fonti, che sono sterminate. Abbiamo esaminato tutti i documenti del processo, scartando però l’ipotesi del legal thriller, infine ci siamo decisi a osservare le singole deposizioni per costruire una storia corale che fosse onesta e facesse emozionare. Io definisco la Diaz, citando Calvino, il castello dei destini incrociati“.

 

Inizialmente nella sceneggiatura c’erano tutti i nomi, delle vittime e dei poliziotti, ma dalle parti offese è arrivata la richiesta di celare le identità. “In internet trovate queste informazioni e persino gli atti processuali, ma noi abbiamo fatto un film e vorremmo che fosse visto come tale”, sottolinea il regista, bersagliato però da domande politiche. D’altronde è stato anche necessario mettersi al riparo da beghe giudiziarie, Diaz è nato in un clima di forte tensione. Racconta Procacci: “Siamo assistiti da uno studio legale che ritiene non ci siano problemi. La polizia non ha visto il film, io avevo messo il copione a disposizione, non c’è stata reazione da parte loro. Del resto la sentenza di secondo grado ha confermato le accuse. Anche se gli agenti, condannati in secondo grado, sono ancora in servizio, in attesa della definitiva sentenza in Cassazione, ma non è aspettando che i reati cadano in prescrizione che si sana la frattura che si è creata tra la polizia e i cittadini”.

 

Il film mostra quel sangue che non è giusto cancellare, come suggerisce il sottotitolo e come dice una ragazza entrando nella scuola la mattina dopo il feroce pestaggio. C’erano 93 persone, tra cui anche alcuni giornalisti, 87 furono i feriti. Tutti gli arrestati vennero torturati, sottoposti a umiliazioni e abusi di vario genere, minacciati. Inoltre la polizia, che sosteneva vi fossero tra loro dei black block, inquinò le prove introducendo spranghe, coltelli e bottiglie molotov. Erano drogati quegli agenti che agirono con follia e barbarie? “Queste sono semplificazioni – dice il regista – io ho avuto la percezione che vi fosse un progetto unico dietro quei fatti. I comportamenti dei poliziotti non sono spiegabili come atti inconsulti. La ferocia fu esercitata con lucidità. Se anche in quella scuola ci fossero stati delinquenti o stupratori non sarebbe comunque stato legittimo quel comportamento”. Vicari spiega che non ha voluto indagare le motivazioni politiche del movimento no global, composito e frastagliato, e neppure approfondire le psicologie dei poliziotti. Con la parziale eccezione del personaggio di Claudio Santamaria, vicequestore aggiunto del primo reparto mobile di Roma, attraversato da scrupoli. “Il mio personaggio – spiega l’attore – è ispirato a una persona vera. Non lo vedo come un eroe, ma come uno che fa il suo dovere, cioè cerca di mettere ordine nella piazza. Interrompe il massacro alla Diaz perché si rende conto di quello che sta accadendo. La mattina dopo, a Bolzaneto, sente che c’è qualcosa che non va e decide di andare a fare colazione, perché vuole evitare di dover firmare dei verbali falsi”. Viceversa il film mostra l’arrivo a Genova di un alto dirigente della polizia che cambia le strategie: “Dopo la devastazione del centro cittadino e soprattutto dopo la morte di Carlo Giuliani, la polizia aveva bisogno di riequilibrare la propria immagine, il pezzo grosso decide l’irruzione nella Diaz senza calcolare tutte le conseguenze di questo atto. Ma la responsabilità riguarda tutti, non solo chi diede l’ordine”.

Non c’è il rischio, paventa qualcuno, che film come questi o come Acab possano creare ostilità verso le forze dell’ordine da parte dei giovani? Risponde Vicari: “Quando il cinema, come pure il giornalismo, va a ficcare il naso in cose così delicate, si corre sempre un rischio, ma si deve correre in un paese democratico, dove si può parlare di tutto. Ci sono stati due processi, in rete si trovano nomi e numeri di telefono di tutti i poliziotti, ci sono registrazioni con le voci delle persone picchiate e dei picchiatori: la vera violenza è quella. Il film penso che possa disturbare e spiazzare, ma non credo che qualcuno lo prenderà come spunto per azioni violente”.

 

Nel cast di Diaz, in uscita il 13 aprile con Fandango, Jennifer Ulrich, Elio Germano, Fabrizio Rongione, Renato Scarpa, Monica Birladeanu, Davide Iacopini, Ralph Amoussou.

autore
12 Febbraio 2012

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