“Sono contenta che il mio film sia piaciuto ai selezionatori del Festival di Berlino. La sezione Panorama, dove verrà proiettato il 10 febbraio, è quella più adatta per la sua natura sperimentale e non ufficiale”, così Nina Di Majo parla del suo debutto alla Berlinale.
Più che un’analisi spietata sui rapporti di coppia L’inverno, nelle sale l’8 febbraio, è un film sull’incomunicabilità, sulla difficoltà dei rapporti umani perché “l’umanità – come sostiene la giovane filmaker napoletana – fa acqua da tutte le parti”. A tratti si respira un’atmosfera all’Antonioni, autore che è parte del Dna della regista accanto a Bergman, Allen, Rohmer con “la sua leggerezza mozartiana”.
“Il mio è lo sguardo di un entomologo del sentimento. Racconto di personaggi che vivono in una bolla dell’anima, la loro nevrosi è per definizione autocentrata e autoreferenziale – spiega la Di Majo – E la loro è la solitudine di persone molto nevrotiche che non sanno che cosa vogliono e quale direzione prendere. Persone che cercano la loro strada in modo goffo e tragicomico”.
Anche per Fabrizio Gifuni (Leo) i protagonisti di L’inverno sono ridicoli: “Tra Leo, Marta, Anna e Gustavo si svolge un gioco di crudeltà molto forte fino a diventare, come nei romanzi dello scrittore austriaco Thomas Bernhard, personaggi comici”.
Ma la regista prova comunque una grande tenerezza per le sue creature, solo il compagno di Anna, Gustavo, le è particolarmente antipatico, “culturalmente è quello che più mi infastidisce, perché è l’archetipo dell’uomo maschilista. Invece mi fa simpatia la non deontologia dello psicoanalista. Lui che ha il compito di curare è il primo che dovrebbe essere curato”.
Per gli interpreti si capisce da subito, vedendo il film, che non è stato facile misurarsi con i moti interiori, le nevrosi e le solitudini. “Anna è un tipo femminile di donna, lontana dalla mia natura – confida Valeria Golino – tant’è che all’inizio non riuscivo a relazionarmi con questo personaggio perché ha degli aspetti obliqui e un tipo di fragilità che mi irritava. In fondo avrei preferito interpretare il ruolo di Valeria Bruni Tedeschi”.
Anche per Gifuni vestire i panni di Leo è stato impegnativo perché “è un uomo bloccato dall’inizio alla fine, non conosce un momento di liberazione se non forse quello schiaffo dato a Marta. Paradossalmente nel film di Andrea Porporati, Sole negli occhi, il mio personaggio compie alla fine un gesto estremo tragico ma liberatorio. Da subito però mi ha convinto di Leo – spiega Gifuni – il fatto che non ci sia mai da parte sua un compiacimento del suo malessere, non si corre mai il pericolo di cadere nello stereotipo dello scrittore maledetto”.
In controtendenza Valeria Bruni Tedeschi che non ha avuto particolari difficoltà a confrontarsi con il disagio: “Ci sguazzo dentro. Il fatto di lavorare sul dolore, non mi addolora. Marta è un personaggio catartico, ci parla del dolore della separazione e dell’abbandono che mi riporta a qualcosa di più antico e lontano. Ed è un donna che trova nell’ironia l’unica ancora di salvezza e forse anche il modo per tenere in mano le redini della situazione con Leo”.
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