NYON – Valerio Jalongo lo ricordiamo come autore del ritratto del cinema italiano in crisi Di me cosa ne sai. Presentato nella sezione Helvétiques, dedicata alle produzioni e co-produzioni svizzere, il nuovo film del cineasta romano si focalizza sull’ambito scientifico, scegliendo come centro nevralgico del proprio discorso il CERN a Ginevra.
Com’è nato il progetto?
Un po’ per caso, in realtà. Un mio amico mi ha detto “Vieni al CERN”, e così mi sono ritrovato a studiare fisica, che per me era sempre stato un tabù. Anche qui, come nel mio documentario precedente, si parla della centralità della cultura. In questo caso è una cultura scientifica, ma anche qui ci sono degli artisti. Credo che il CERN rappresenti un modello, non solo sul piano scientifico ma anche a livello sociale, perché è aperto, collaborativo. Sono stato sedotto da questo aspetto, al di là della complessità della materia che si studia lì.
Il nesso fra scienza e bellezza era presente dall’inizio, o è emerso durante le riprese?
Ho cercato sin dall’inizio di rendere questo mondo più accessibile, non solo per me stesso ma anche per un pubblico di non-specialisti. A forza di studiare, leggere ed intervistare nell’arco di tre anni è emersa questa componente umana fortissima. C’è una grandissima passione al CERN, ed è una passione che sentivo anche mia, è simile al legame che si crea tra un artista e la sua opera, o quando un regista gira un film. C’è un elemento legato alla seduzione, al mistero. Questa è la scoperta che ho apprezzato di più: al CERN la vera scienza accetta il mistero, ha un atteggiamento molto umile. Lo dice anche uno degli scienziati nel film: “Siamo ministri del dubbio.” Penso che in un momento storico come quello che stiamo vivendo sia un atteggiamento molto utile.
Parlando di accessibilità, la voce narrante in inglese è per evitare che il film fosse “troppo italiano”?
No, ci sono due versioni. In quella italiana la voce fuori campo è la mia, qui a Nyon abbiamo preferito mostrare quella internazionale, dove il narratore è un attore inglese (John Heffernan, ndr). Nel film si pone l’accento sulla collaborazione fra i vari paesi da cui provengono gli scienziati.
A livello produttivo, com’è stata la collaborazione fra Italia e Svizzera?
Direi ottima. In questo caso la componente maggioritaria è quella svizzera, loro hanno creduto molto nel progetto e hanno investito di più, mentre di solito è il contrario. Tra l’altro questo ideale diverso di collaborazione promosso dal CERN ha contagiato anche gli artisti che hanno lavorato al film, molti dei quali lo hanno fatto gratuitamente. La sua filmografia alterna opere di finzione e documentari.
Cosa la spinge ad andare in une direzione o nell’altra per determinati soggetti?
In questo momento è la libertà. Facendo un film di finzione ci sono più costrizioni, con questo progetto invece ho avuto carta bianca, ho potuto lavorare per tre anni recandomi decine di volte al CERN, intervistando gli scienziati, contattando gli artisti… Credo anche che sia necessario porsi una domanda: quanto sono in grado i nostri film di rispecchiare la complessità che c’è là fuori? In generale, parlando del cinema italiano, trovo che l’offerta dei film di finzione sia meno interessante, perché ci sono quasi degli obblighi legati alla distribuzione.
Parlando del cinema italiano in generale, potrebbe avere senso una specie di seguito del discorso iniziato con Di me cosa ne sai, sullo stato attuale delle cose?
Io credo che una delle grandi pecche del giornalismo nel nostro paese sia stata il non voler raccontare l’involuzione culturale a cui siamo andati incontro, se non per motivi politici. In realtà questo fenomeno si sta estendendo in tutta Europa, e per questo motivo credo che il CERN sia un’immagine importante. È impressionante quanti artisti, scienziati e filosofi facciano riferimento al CERN anche al di fuori dell’ambito della fisica. Le strade possibili sono due: l’involuzione, che porta a situazioni di radicalismo, o un maggiore approfondimento. Per rispondere alla domanda, penso che ci sia ancora molto da raccontare, in particolare sui giochi di potere che possono determinare l’uscita o meno in sala in Italia. I retroscena da esplorare ci sono, ma è un discorso più complesso sull’involuzione culturale, che sta colpendo anche la scuola e l’università.
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