Valentina Pedicini: gli atti di fede dei monaci guerrieri

Un viaggio in un mondo sconosciuto, alle radici della devozione dei bianchi guerrieri della luce, una comunità che vive da vent’anni isolata inseguendo la perfezione fisica e spirituale, in Faith


BERLINO – In un monastero isolato sulle colline italiane vive una comunità di monaci laici che si definiscono cristiani e praticano arti marziali. Si professano Guerrieri della Luce, e da vent’anni inseguono la perfezione fisica e spirituale attraverso allenamenti fisici, a dir poco massacranti, e pratiche in cui il corpo viene portato allo sforzo estremo, per forgiare l’anima attraverso la disciplina e la meditazione, in un modo di stare a mondo fatto di rinuncia, per alcuni versi incomprensibile. Rinunciano al mondo esterno ma, in un certo senso, anche a se stessi, rinunciano ai colori (sono tutti rigorosamente vestiti di candido), alla ricerca asfissiante di una purezza di cui sentono portatori e che li ha spinti a rifuggire dalle contaminazioni del mondo (“bianco è più bello, vero?” domanda retoricamente uno dei protagonisti al figlioletto dopo avergli insegnato il colore verde di un cucchiaio). Passano parte delle loro giornate tra preghiere, pugni, addestramenti estremi, balli sfrenati e ritualità dal gusto vagamente orientale. Con una spiritualità radicale che passa attraverso il corpo e il superamento dei suoi limiti.

Sono Monaci Guerrieri, protagonisti del nuovo film documentario di Valentina Pedicini Faith, presentato alla Berlin Critics’ Week dopo l’anteprima mondiale al festival di documentari IDFA di Amsterdam. La regista, che ha firmato anche soggetto e sceneggiatura e torna al documentario dopo l’esordio nella finzione con Dove cadono le ombre presentato a Venezia 2017, ha vissuto per lunghi mesi al loro fianco, condividendo la quotidianità di questa comunità (oggi composta da ventidue persone), guidata da un Maestro-guru ex campione di kung fu, dove sono ammessi anche donne (la ‘Madri Guardiane’) e  bambini. “Faith è nato con l’intento di essere per lo spettatore un’esperienza visiva ed emotiva nella vita e nella psiche dei Monaci – dichiara la regista – Per ottenere questo risultato è stato fondamentale vivere accanto a loro e accettare alcune rigide leggi che regolano il loro universo”. L’intera troupe, infatti, nel periodo trascorso nel monastero ha dovuto attenersi a un serie di regole, tra cui vestire rigorosamente di bianco e utilizzare abiti e scarpe apposite per non contaminare il monastero con impurità provenienti dal mondo esterno. Il documentario è girato in bianco e nero, con un’affascinante fotografia firmata da Bastian Esser, la scelta sicuramente più coerente per descrivere un universo esclusivo ed escludente.

Faith, che ancora non ha un distributore italiano, è una produzione Stemal Entertainment con Rai Cinema, con il contributo di DG Cinema e Audivisivo – MIBACT con la partecipazione dell’IDM Sudtirol – Alto Adige, prodotto da Donatella Palermo (Nomination agli Oscar e Orso d’Oro con Fuocoammare, Orso d’Oro con Cesare deve morire dei fratelli Taviani).

Come ha fatto ad avvicinarsi ad un mondo così chiuso alle contaminazioni esterne, e ad ottenerne la fiducia? 
La grande chiave per ottenere questa relazione è stato il tempo. Ho vissuto, insieme alla troupe di quattro persone, all’interno della comunità, per cinque mesi, in una dimensione di chiusura e clausura. Un tempo infinito passato insieme, stavamo dentro quindici ore al giorno per ottenere, magari, un’ora di girato. Per raccontare la verità e per farlo in modo autentico, cogliendo quello che accadeva davanti ai nostri occhi.

Ci sono state delle regole particolari da accettare per lei e la troupe, per essere accolti nella comunità?
Una delle regole che abbiamo dovuto accettare, è stata quella di doverci vestire di bianco come loro. E’ stata la cosa più pesante da fare perché è stata una forma di spersonalizzazione: abbiamo dovuto toglierci i nostri abiti e indossare un’uniforme, la loro. 

Cosa l’ha stata la spinta ad indagare su questo mondo così radicale? 
Sono entrata in questo mondo con la domanda del perché si decide, ad un certo punto della propria esistenza, non solo di abbandonare il mondo esterno, ma anche di lasciare parte della propria identità. Non è solo fede religiosa, ma fede in qualcuno. È stato un modo interessante per abbattere i pregiudizi, perché spesso si crede che in questo tipo di realtà siano coinvolte persone con grandi problemi, invece i ragazzi che vivono lì dentro appartengono alla media alta borghesia, alcuni sono laureati, non hanno avuto grossi problemi. Questo rende ancora più grande la domanda del perché si metta la propria esistenza nelle mani di qualcun altro. 

Perché i Monaci hanno accettato, secondo lei, di essere ripresi? 
Hanno accettato per una motivazione molto umana, avevo girato undici anni fa un corto su di loro e, dopo così tanti anni che non vedevano persone esterne, il mio ritorno è stato per loro umanamente molto forte. Il Maestro, poi, era convinto che io fossi tornata perché il Signore lo aveva deciso. Inoltre, credo, avesse voglia di traghettare per la prima volta la vicenda della comunità all’esterno del monastero, perché fosse riconosciuta. Ho la sensazione che mi abbia dato la possibilità di girare una sorta di testamento della comunità.

Ha mai temuto che la comunità venisse percepita dal mondo esterno in maniera distorta o ridicola?
Il mio sguardo non solo non voleva essere giudicante, ma voleva mantenere un equilibrio anche visivo, perché c’era il rischio di ridicolizzarli. Lo sforzo è stato trovare un equilibrio nel raccontare la verità senza tradire i protagonisti, al tempo stesso avvicinandoli al pubblico. Non volevo venisse percepito come un film su una setta, ma su un meccanismo psicologico. 

I membri della comunità vivono in una sorta di performance fisica costante. Come ha fatto emergere il loro lato umano?  
Avendo questo rapporto così forte con il corpo e la performance, sono quasi degli attori. Ancora una volta è stato il tempo e l’aspettare che si spogliassero di quella performance continua, a far emergere la verità.  Toglierli dal palco in cui quotidianamente si esibiscono e umanizzarli ricordando che c’è ancora dell’umanità in loro. In questo i bambini sono stati una forza straordinaria: quando arrivavano io tiravo un sospiro di sollievo, sono gli unici che hanno un contatto con l’esterno, che vanno fuori, e non è un caso che l’unico sguardo in camera che ho lasciato in fase di montaggio è quello della bambina, come a dire che i bambini non mentono e quello sguardo è fuori dalla performance. 

Qual è la guerra a cui si stanno preparando? 
Nelle loro dichiarazioni è una dimensione apocalittica che arriverà in futuro, e sono pronti ad affrontarla a nostro favore, difendendoci. Ma la guerra che più mi ha affascinato è quella che combattono contro loro stessi, quel rinunciare a tutto che li ha fatti diventare un corpo armato che indossa quel tipo di divisa. 

La comunità dei Monaci ha visto il film? Coma ha reagito?
Hanno visto il film in una sala esterna che abbiamo affittato, ed era la prima volta che entravano in un cinema dopo tantissimi anni.  È stata molto dura e commovente per loro, hanno pianto tutti, anche perché hanno rivisto Gabriele, che ha abbandonato la comunità qualche mese dopo le riprese. Il Maestro mi ha detto che era un film duro e violento ma che raccontava la verità, e quindi non aveva nulla da ridire. 

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26 Febbraio 2020

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