Presentato con successo alla Semaine de la Critique a Cannes, arriva in sala il 23 maggio il controverso Una vita violenta del regista corso Thierry de Peretti. Dopo Apache (presentato alla Quinzaine des réalisateurs) de Peretti (classe 1970) con il secondo lungometraggio ritorna a raccontare la sua Corsica, la controversa vicenda di violenza e ribellione che ha caratterizzato la sua generazione.
Protagonista è Stéphane, che nonostante la minaccia di morte che pesa sulla sua testa, decide di tornare a casa per partecipare al funerale del suo migliore amico e compagno d’armi, Christophe, ucciso il giorno prima. Per Stéphane è l’occasione per ricordare gli eventi che hanno condotto lui, un intellettuale piccolo borghese di Bastia, a passare dalla piccola criminalità alla radicalizzazione politica e alla clandestinità. De Peretti è nato e cresciuto in Corsica: “Ho sempre trovato molto difficile spiegare ai miei amici, alle persone che incontravo o ai miei colleghi di Parigi o altrove, il posto da cui venivo, e non soltanto dal punto di vista geografico – dice – Io non sono cresciuto in un luogo arcaico e fuori del tempo, e proprio come i miei coetanei anch’io ho ascoltato gli Smiths e guardato Uomini veri di Philip Kaufman, Nightmare di Wes Craven o Police di Maurice Pialat.
Certo, la mia infanzia e adolescenza sono state segnate da un clima di violenza politica e da una profonda confusione Sono interessato a quel periodo in cui dozzine di giovani corsi furono uccisi brutalmente, spesso per ragioni oscure. Filmare quel periodo significa affrontare temi come l’origine della violenza, e interrogarsi su quelli che affliggono l’isola ancora oggi. Il film non ha una prospettiva storica, ma tratta di storia e di politica, e soprattutto della Francia. Il film è un omaggio a tutti quei giovani che si sono persi o sono stati uccisi. Ma è anche la promessa di un dialogo tra unagenerazione dimenticata, persa e abbattuta e un’altra, ancora viva e vegeta, rappresentata sullo schermo dai suoi predecessori”. Circa l’argomento del film, potenzialmente esplosivo, dichiara: “In realtà mi avrebbe fatto molto piacere che si creasse polemica attorno al film, perché per me il cinema deve fare anche questo. Di cos’altro vogliamo parlare se non abbiamo voglia di parlare della nostra realtà? Nel film ho lanciato qualche provocazione, per esempio quando racconto che lo Stato ha tentato di infiltrarsi nel movimento nazionalista per distruggerlo. Ma non ho avuto grosse reazioni a parte qualcuno che ha detto ‘perché raccontare proprio questo periodo, il meno glorioso del movimento, e non un altro?’. Volevo dare la parola a quelli che di solito non vengono interpellati. Ma la risposta migliore è venuta dalla stampa, sia da un punto di vista contenutistico che stilistico, hanno reagito. Forse perché nel film dico che i giornalisti francesi non scrivono mai le cose come andrebbero scritte”. Stilisticamente il film si caratterizza per la prova ‘spontanea’ degli attori, frutto di uno specifico metodo di lavorazione: “E’ stato un ‘casting selvaggio’, tutto basato su non professionisti – spiega ancora il regista – abbiamo lavorato con una serie di workshop e non seguendo la classica struttura ‘soggetto/sceneggiatura/finanziamento/riprese.
Era tutto mescolato insieme. Si provava, poi scrivevo qualche scena, poi nuove prove e nuove riprese. Non importa che alla fine venga fuori il film o meno, è solo una possibilità, ma il lavoro che c’è dietro e quello che conta. Il mio modello sono i quattro film che vengono fuori idealmente da Pasolini con gli Appunti per un’Orestiade africana. Ad esempio, sto facendo un altro film nato come ‘lato B’ di questo. Si chiama L’altra gioventù e racconta della ricerca del cast per Una vita violenta”.
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