Potrebbero quasi essere due sorelle, accomunate da un comune destino e da una ribellione che si rinsalda in un legame fortissimo, che riverbera anche sulle altre donne che le circondano o che incontrano. Una madre, una figlia di Mahamat-Saleh Haroun, in concorso a Cannes (leggi l’articolo) e ora in sala con Academy Two dal 14 aprile, ci porta nella periferia di N’Djamena in Ciad, dove Amina (Achouackh Abakar Souleymane) vive sola con la sua unica figlia quindicenne, Maria (Rihane Khalil Alio), nata quando lei era appena un’adolescente. Amina riutilizza vecchi copertoni per costruire dei piccoli utensili da cucina che vende al mercato, mentre la figlia frequenta il liceo. Sono musulmane, come il vicino di casa Brahim (Youssouf Djaoro), anziano solo, che vorrebbe sposare Amina ma viene respinto.
Nella prima scena il regista ciadiano (Daratt, la stagione del perdono; Un homme qui crie; Grigris) ci mostra il lavoro esperto e faticoso della sua protagonista, la osserva da vicino, quasi a voler portare lo spettatore dentro la sua testa e il suo cuore. E’ una donna completamente sola, bandita dalla famiglia benestante e ultra religiosa per quella gravidanza indesiderata, ma legatissima alla figlia adolescente che è il suo unico amore. Quando Maria si scopre a sua volta incinta e viene espulsa dalla scuola il mondo le cade addosso. Abortire è impossibile in Ciad, lo condanna non solo la religione, ma anche la legge. Tuttavia Amina, dopo un primo momento di stordimento, ingaggia una battaglia contro il tempo, il denaro e la collettività, trovando una rete di donne al suo fianco. E’ il lingui cui fa cenno il titolo originale del film: “Si tratta di una parola in arabo ciadiano – spiega il regista – che significa legame o connessione. È un termine che implica solidarietà, mutuo soccorso, è il filo comune, il legame sacro del nostro tessuto sociale”.
Un tema, quello dell’aborto clandestino che ricorre in più di un film recente (penso ad esempio a La scelta di Anne di Audrey Diwan) e che qui viene utilizzato per permetterci di scoprire, passo dopo passo e senza alcuna presa di posizione ideologica, la condizione femminile nel paese africano a vari livelli, da quello familiare a quello comunitario. Il patriarcato impone le sue leggi, sostenuto dalla religione: le bambine non raramente vengono sottoposte all’escissione, ovvero il taglio del clitoride. Le giovani donne, benché abusate, sono emarginate per una gravidanza che è conseguenza dello stupro. Quasi nessuno è disposto ad aiutarle. Eppure si consolida il germe di un femminismo istintivo che le porta a ribellarsi, spesso sotterraneamente, anche con l’inganno e la violenza, a volte apertamente. Sempre con dignità. “Il femminismo – spiega ancora Haroun – non esiste come dottrina in Ciad, ma esiste nella vita di tutti i giorni. Vedo giovani donne che hanno studiato all’università e vorrebbero costruire una famiglia, ma non possono farlo perché la società disapprova il fatto che guadagnino bene e le considera troppo indipendenti e libere. Queste donne si riuniscono per parlare della loro vita, per condividere le loro esperienze. È un femminismo che non reclama nulla apertamente, ma che è estremamente attivo. Sono sempre stato molto sensibile alle cause femminili perché sono stato allevato da mia nonna, una donna straordinaria: quando suo marito (mio nonno) prese una seconda moglie, lei salì su un cavallo con suo figlio (mio padre) e fuggì. Mio nonno la raggiunse e le portò via il figlio. Mia nonna non si risposò mai, né ebbe altri figli. Immagino che abbia avuto comunque altre relazioni, ma senza restare mai incinta. Mi piace pensare che abbia inventato la contraccezione in Ciad”.
Perfette le due interpreti, non professioniste ma già presenti in qualche modo nel precedente cinema di Haroun. “Achouackh aveva già rivestito un piccolo ruolo in Grigris – spiega – Quando ha letto questa sceneggiatura, ha voluto interpretare Amina. Per quanto riguarda Rihane, appena ci siamo incontrati, mi sono sentito stranamente vicino a lei, poi ho scoperto che la sorella maggiore aveva avuto una parte in Abouna. A volte devi credere nei segni, specialmente quando si tratta del processo creativo”.
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