Una luna chiamata Europa e il profugo volante

In sala dal 12 luglio con Movies Inspired l'ungherese Kornél Mundruczó, con il suo settimo film che affronta il tema drammatico delle migrazioni in chiave cristologica


CANNES – Torna a Cannes, stavolta in concorso, l’ungherese Kornél Mundruczó, già autore del notevole White God (premiato a UCR) e di Delta. Regista dalla forte vocazione simbolista e metafisica, con questo suo settimo film, Jupiter’s Moon-Una luna chiamata Europa, affronta il tema delle migrazioni in chiave cristologica.

Il film, in sala dal 12 luglio con Movies Inspired, si apre alla frontiera dell’Ungheria, paese dalle politiche particolarmente razziste, dove i migranti sono respinti con la forza e imprigionati. Il giovane Aryan sta cercando di passare le recinzioni insieme al padre quando viene colpito da tre proiettili. Da quel momento acquista la capacità di levitare e di volare. Di questo super-potere si accorge immediatamente il dottore del campo, un uomo spregiudicato con un passato oscuro, disposto a tutto per denaro, che comincia a sfruttare a fini di lucro la qualità “angelica” di Aryan portandolo al capezzale di malati terminali. 

Tra riferimenti astronomici (il titolo allude a Europa, satellite di Giove, dove pare vi siano condizioni adatte alla vita) e alle cronache recenti (c’è anche un sanguinoso attentato terroristico in metropolitana) il 42enne Mundruczó esagera con sottotesti e allusioni, mescolando cinema d’autore e action movie (pare sia una delle tendenze del momento, in Italia come altrove). “Questo, purtroppo, non è un film di fantascienza – spiega il regista – non parla del futuro. Non volevamo fare un film sui rifugiati ma usare questi contenuti attuali per dare vita a una riflessione sui miracoli. Poi, mentre eravamo ancora in pre-produzione, tutto quello che avevamo immaginato, è diventato tristemente vero”. Mundruczó racconta anche che la prima idea del film gli è venuta durante una visita in un campo profughi. “Stavo lavorando a una grande installazione per la Winterreise di Schubert e siamo stati al campo di Bicske per un paio di settimane. Ho avuto l’impressione che lo spaesamento, l’alienazione, il sentirsi diverso fosse la condizione dell’essere in questi luoghi. C’era una sorta di santità in quelle persone che vivono fuori dal tempo e dallo spazio. L’immagine della privazione è molto vicina alla liturgia cristiana. Non c’è passato né futuro, ma solo un presente incerto. Non sai neppure più se sei te stesso, la stessa persona di quando sei partito”.

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19 Maggio 2017

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