E’ la storia di un cuore, Riparare i viventi, opera terza della 36enne regista francese Katell Quillévéré, in sala dal 26 gennaio con Academy Two. Tratto dal fortunato romanzo di Maylis De Kerangal (in Italia lo pubblica Feltrinelli), il film si apre sul personaggio di Simon Limbres, un giovane surfista che lascia all’alba la camera da letto della sua ragazza per andare a sfidare le onde dell’oceano in compagnia di due coetanei. Un ragazzo biondo con un tatuaggio tribale sulla spalla, pieno di energia, di voglia di vivere, con un cuore che batte forte, nello sport o quando bacia la fidanzata dopo una corsa in salita in bici. Le prime scene sono davvero sontuose, resta impresso nella retina il protagonista che cavalca l’onda e che poi, sulla vita del ritorno, si addormenta accanto all’amico alla guida, spossato quanto lui, con la strada che si trasforma in un mare in burrasca. Poco dopo siamo in un ospedale dove i genitori del giovane saranno posti di fronte a una scelta tragica eppure portatrice di nuova vita, donare gli organi del ragazzo, ormai in stato di morte cerebrale irreversibile. “Riparare i viventi”, appunto. Cioè non lasciare che un cuore che batte ancora si fermi per sempre.
E’ interessante il duplice approccio della regista a questa tematica: da una parte la vicenda è ricostruita con attenzione scientifica meticolosa al punto da non lasciare all’immaginazione nessun dettaglio dell’operazione di espianto dell’organo che viene poi trasportato da una città all’altra della Francia in una lotta contro il tempo. Dall’altra il film ha un sottotesto quasi metafisico, che ci parla di qualcosa di ancestrale, la sacralità della vita e l’insondabilità dei destini umani. Così – ed è una sostanziale differenza rispetto al romanzo – l’autrice si concentra anche sulla personalità e la storia di Claire, la donna cinquantenne con due figli adulti, che riceverà la donazione. “Sono sempre stata interessata al significato di sacro – spiega la regista – è ho cercato già dal mio primo film, Un poison violent, il modo di tradurlo in immagini. C’è una sensazione di trasgressione quando guardi sotto la pelle, che è la nostra frontiera naturale, la protezione della nostra identità. La chirurgia viola quella barriera sacra, nello spazio chiuso della sala operatoria, e lo fa per salvare la vita. Come regista in che modo posso chiedere allo spettatore di accettare quelle immagini potenzialmente così dirette e brutali. E’ affascinante la sfida di illustrare attraverso quelle immagini, momenti come quelli, quando si è in sospeso tra la vita e la morte e il triviale incontra il sacro”.
Presentato alla 73ma Mostra di Venezia, nel concorso di Orizzonti, e poi visto nella sezione competitiva Platform del Festival di Toronto, Riparare i viventi riesce a mantenere il difficile equilibrio tra l’aspetto drammatico (e potenzialmente melodrammatico) della vicenda e una struttura esatta e tagliente in cui ogni personaggio contribuisce a dare quel senso di una umanità legata da fili sottili e misteriosi, un po’ come accade nel cinema di Iñárritu e Arriaga, o meglio ancora in quello di Atom Egoyan. “Volevo costruire una chanson de geste – dice ancora Katell Quillévéré – un racconto che non fosse né una cronaca né un film corale, un film di relazioni senza personaggi principali. Ognuno è l’anello di una catena umana che tiene legati una morte e una vita”. Sono tutti uniti da quello slancio vitale che appartiene all’uomo come eredità della sua natura animale: “Il pesce pagliaccio in caso sia necessario alla sopravvivenza può cambiare sesso a fini riproduttivi”, racconta la dottoressa che vuole convincere la restia Claire ad accettare il rischio del trapianto, di avere dentro di sé “il cuore di un morto”.
Tra gli interpreti troviamo Tahar Rahim, Bouli Lanners, Monia Chokri, Dominique Blanc, Karim Leklou e Alice de Lencquesaing (il personale medico), Emmanuelle Seigner e Kool Shen (i genitori di Simon, interpretato a sua volta da Gabin Verdet), Anne Dorval nei panni di Claire, Finnegan Oldfield e Théo Cholbi (i suoi figli), Alice Taglioni (la sua ex).
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