‘Ultimo Impero’, la caduta della giovinezza dell’Occidente in un western postatomico

Il regista Danilo Monte racconta una storia d’identità umana, tra miseria e solitudine, in cui quella che fu la discoteca più grande d’Europa, evocata nel titolo, si fa ventre per due anime erranti. Solo un inatteso gesto d’umanità dà un colpo di ossigeno al presente


TORINO – L’Ultimo Impero che dà identità al film è stato un luogo che ha fatto ballare migliaia di persone. Era la discoteca più grande del Vecchio Continente e adesso, decadente simulacro, Danilo Monte ambienta lì una storia di terrena solitudine, di reale povertà, di inattesa umanità, con Mohamed Amine Bour,  poeta e attore marocchino, e Alessandra Rosa, dirigente sanitaria, per la prima volta sullo schermo.

Danilo, per la locandina ha scelto una cromìa bicolore, rosso scuro e nero, colori cupi, ma anche colori di passione, di personalità. Cosa racconta questa ‘copertina’ del film, a cosa introduce?
Mi fa piacere sia colto questo livello di lettura. La scelta del colore è un riferimento al colore dell’Impero Romano storico e della discoteca stessa, perché era presente nell’arredamento, come nel font scelto per il nome; questo colore c’è nel titolo del film, con anche delle citazioni, sempre con questo sfondo porpora costante. C’è, quindi, una ex discoteca abbandonata nel nulla, a 30km da Torino, dove però trovi un capitello, una statua, e la scritta – Ultimo Impero, che ancora si legge – con due colonne classiche, per cui il richiamo è a un luogo che è stato mitico, glorioso, che ha visto il fasto dell’impero moderno, perché per me il richiamo è all’attualità del presente. Noi siamo nell’oggi, dove questo impero è decaduto e ci sono lì due persone sole, infreddolite, che si aggirano.

Ultimo Impero è… un titolo, quello del film, il nome della discoteca che racconta, ma anche un concetto metaforico: pensando a quest’ultimo, come lo ha elaborato, in sé e creativamente, per trasporlo e raccontarne l’essenza nel film?
La suggestione parte dalla mia fascinazione estrema per i luoghi abbandonati, quelli in cui, quando arrivi, senti il passato che c’è stato, anche se la traccia rimasta è minima. Può andare dall’ex discoteca a Auschwitz – dove sono stato con mio fratello proprio per un nostro film: sono quei luoghi carichi di energia, anche terribile talvolta, in cui c’è la traccia di un passato che non c’è più, luoghi in cui è successo qualcosa di veramente intenso, tanto che nel film aleggiano come dei fantasmi, l’eco della musica che c’è stata torna e poi deflagra nei titoli di coda. Questo mi ha fatto riflettere moltissimo sulla nostalgia, su un passato che non c’è più, su una condizione esistenziale in cui mi ritrovo io e ci ritrovo la società attuale, quasi come se quel luogo potesse diventare la metafora di un tempo glorioso in cui c’era stata una promessa di futuro non mantenuta, e cosa resta di questa promessa? Un rudere. Quella discoteca era perfetta perché non era una fabbrica, ma un luogo di divertimento, dove, chi prima andava in fabbrica, poi si andava a divertire: è l’ultimo momento in cui si arriva a un picco di esaltazione e di pensiero su un mondo che sarebbe migliorato, che non c’è più stato.

Nel suo Ultimo Impero c’entra molto il ricordo, ma sussiste anche un senso di morte: come ha tenuto conto di questi concetti, spirituali, fisici, simbolici?
Il mio punto di partenza era fare un film d’atmosfera, dove la narrazione fosse limitata al minimo e in cui la questione esistenziale e proprio l’atmosfera in cui erano calati i personaggi fossero fortissime. Non l’ho scritto, non l’ho dichiarato, ma m’è venuto un parallelismo: questa storia è come guardare le foto di quando eri bambino, con la sensazione fortissima che tutto quello visto in quelle fotografie fosse bello, anche se probabilmente la condizione non era davvero quella; così, io ho pensato che quel luogo potesse rappresentare la giovinezza dell’Occidente. Oggi, l’Occidente è un uomo di mezza età, che guarda al futuro come il momento in cui morirà, e guarda queste fotografie pensando alla forza di quel tempo. La mia intenzione è stata di allargare queste sensazioni al momento storico che viviamo: dal Dopoguerra, passando per il Boom, fino al culmine degli Anni ’90, dove poi la discoteca chiude; fino all’adesso, in cui devi razionare tutto perché le risorse stanno finendo e questi luoghi periferici – ne ho contati almeno quaranta in tutta Italia – sono state mete di divertimento. Tutto questo si trasferisce nei personaggi con una sensazione esistenziale, spirituale, di mancanza, di qualcosa che non c’è più. Il tutto è accaduto anche negli anni del passaggio dall’analogico a Internet: piombare in un mondo digitale, fa sì che ai personaggi manchi l’emozione, la vibrazione propria del mondo analogico; sono piombati nella solitudine del mondo digitale, e non hanno coscienza di questo, ma sono soli e non riescono a comunicare.

Sempre a proposito di metafore, che prendono il via dalla narrazione, c’è l’inverno: perché questa stagione l’ha ispirata e quindi l’ha scelta per la sua storia?
Noi abbiamo girato a fine gennaio e la settimana prima delle riprese era stata di pieno sole, poi abbiamo trovato nebbia, gelo, siamo stati a meno 9 gradi per cinque giorni, e questa è stata una fortuna, che ha regalato un’atmosfera incredibile; abbiamo sofferto tanto il freddo, girando in esterni, ma è stato un freddo che ha unito la troupe ed è stato magico: in quella situazione in cui non ti puoi scaldare, dove la prostituta ha giusto la macchina per ripararsi, mentre lui vive in questa stanza di fortuna, il freddo è una condizione in cui non stai bene e anche la comunicazione è difficile; il freddo è anche quello che porta lui a fare cose come rubare a un disperato, il freddo ha una componente.

Un altro elemento è l’identità, quella specifica, conosciuta, decaduta della discoteca che adesso è una cattedrale nel deserto, ma altrettanto quella ignota, taciuta, ma reale dei due protagonisti. Cosa le interessava far emergere di questo concetto?
Mi interessava la precarietà esistenziale, siamo in un luogo alla fine del mondo: c’è una statale in cui passano le macchine, che lascia intendere ci sia qualcosa oltre, ma pare sussistere la solitudine degli ultimi due individui sulla terra. Dal punto di vista cinematografico, c’è la fascinazione del western postatomico, l’intenzione era quella anche nel formato orizzontale dell’immagine stretta. Loro due, nella stessa solitudine, sono però un po’ diversi: lui, non si sa da dove sia venuto: prega, parla in arabo, e io lascio che lo spettatore unisca da sé i puntini immaginando un passato. Si suppone non sia italiano, e nel testo dice: ‘devo andare via, non mi aspettavo di trovare questo, vorrei tornare a quando ero a casa, al caldo’ e poi maneggia sempre un ciondolo, che è quello che si regala alle donne incinta, qualcosa di concettuale; lui ha bisogno di calore, e lo trova nel gesto ossessivo del toccare il ciondolo. Gli manca la madre, colei che lo cura, e troverà poi una persona che in un modo di fortuna gli darà quel piccolo calore che gli consentirà di non morire. Lei, invece, è un po’ condannata: fa più parte di quel luogo, è in quella macchina e non vedo per lei un altrove.

Il gesto di umanità inatteso che offre nel film – pensando alla vita reale – è una speranza verso l’Umanità, un sogno, o magari una nostalgia per qualcosa di cui sopravvive solo una flebile fiammella?
Non sono molto ottimista se analizzo la situazione odierna della società: è come se in quel gesto di umanità ci fosse l’unica possibilità che, se sapremo cogliere, potremo continuare a vivere, altrimenti continuerà qualcun altro, gli animali, i vegetali, chissà. C’è un’unica possibilità che possiamo cogliere, se lo sapremo fare si continuerà, altrimenti no.

Ultimo Impero, nella sezione 7inch fuori concorso di SYS, passa in anteprima italiana il 2 marzo ore 20 al Cinema Massimo, alla presenza del suo autore, che da torinese riconosce anche il valore del territorio e delle istituzioni per la realizzazione della sua opera: “c’è stata una sinergia magica a livello produttivo, per il contributo della Film Commission Torino Piemonte, di due case di produzione – Filmine e Acting Out -, che si sono unite per realizzare il film; la sinergia è stata anche quella di unire, per tutti i ruoli tecnici/artistici principali, persone che fossero state anche registe di almeno un film, dal produttore Valerio Valente a Fabio Bobbio (montatore), a Stefania Bona (direttrice della fotografia): credo questo sia espressione di questo territorio, in cui ci sono figure professionali molto capaci, che hanno voglia di fare esperienza autoriale, per cui è stato naturale per me pensare per esempio a Stefania, che, guarda caso, è stata prima anche regista; si partecipa nel nome di uno scambio fortissimo, per il bellissimo humus proprio del territorio: è qualcosa di prezioso e caratteristico di Torino, rispetto ad altri luoghi in cui si fa il cinema”.

Nicole Bianchi
01 Marzo 2024

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