LECCE. A metà circa del percorso dei film in competizione al Festival del cinema europeo, l’opera prima Kuma del 29enne austriaco, ma di origini curde, Umut Dag si candida al momento a uno dei quattro premi principali (Miglior film, fotografia, sceneggiatura e Premio speciale della giuria) e forse anche a qualcuno degli altri sei premi minori, tra cui quello della Giuria Fipresci e l’altro del pubblico. Kuma in turco significa ‘seconda moglie’, una pratica proibita dalla legge e tuttavia radicata nella cultura di quel Paese. Addirittura c’è un filone di film dedicati a questo tema ma solo dal punto di vista maschile, ricorda il regista.
Al centro del suo esordio, che ha aperto Panorama all’ultima Berlinale, i forti contrasti tra due generazioni, genitori e figli, alle prese con la conservazione delle tradizioni e l’apertura agli stili e ai modelli di vita occidentali. Protagonista una famiglia turca immigrata a Vienna che accoglie la giovane Ayse, proveniente da un piccolo villaggio della Turchia e promessa seconda moglie dell’anziano Mustafa. Ayse è infatti destinata a prendere il posto di Fatma malata di cancro, consorte di Mustafa e madre di figli vicini per età ad Ayse. Tra le due donne, nonostante l’insolita situazione, nasce dapprima un rapporto d’affetto e di solidarietà che s’interrompe in modo traumatico alle prime avvisaglie di emancipazione della giovane Ayse, dopo l’improvvisa morte del loro anziano coniuge. Fatma difenderà, a costo di violenze, l’ordine familiare e la sottomissione femminile. Alla fine tutto pare ricomporsi in nome della famiglia unita, mentre un’altra vicenda è lì lì per esplodere: la scoperta dell’omosessualità del primogenito.
“La comunità turca di Vienna conta 200mila unità, viene al terzo posto dopo i tedeschi e i serbi immigrati nellla capitale. Ho voluto mettere in scena una tipica famiglia turca di prima generazione con forti aspetti matriarcali – spiega Umut Dag – dove le donne anziane fanno di tutto pur di mantenere in vita le tradizioni originarie. Donne prigioniere di un microcosmo i cui unici spazi sociali sono costituiti dalla loro casa, dal supermercato meta della spesa quotidiana e da quelle poche strade che percorrono”. Da subito cogliamo in Kuma il conflitto latente tra generazioni di immigrati turchi, quando quella nuova apprende e parla la lingua tedesca a differenza della prima. Il lavoro di sceneggiatura ha richiesto diverse stesure, a cominciare dal finale che in una prima versione era più drammatico. “Ho invece voluto – rivela il regista – un finale meno melodrammatico, che desse spazio alla riflessione sulla decisione di Fatma di non scacciare Ayse in nome della famiglia unita”. Il regista sottolinea poi di non aver pianificato le riprese in modo tradizionale, ma di aver lavorato con gli attori sulle emozioni e sui sentimenti, ricreando un vero nucleo familiare attraverso un intenso training. “Abbiamo parlato molto di emozioni, di quel che volevamo trasmettere al pubblico e quanto vicini volevamo essere emozionalmente ai personaggi”.
Temi forti e non semplici da risolvere narrativamente quelli affrontati da altri due titoli in competizione e in odore di qualche riconoscimento: il disagio mentale in Fear of Falling del polacco Bartek Konopka e la tossicodipendenza in Oslo, August 31st del danese Joachim Trier, liberamente tratto dal romanzo ‘Fuoco fatuo’ del controverso scrittore Pierre Drieu La Rochelle e che già ha ispirato il regista Louis Malle.
Konopka – una nomination agli Oscar 2010 nella categoria Miglior Documentario – racconta la storia dell’affetto di un figlio per il proprio padre che entra ed esce dal manicomio dove l’unica terapia possibile è fatta di pastiglie e letto di contenzione. Tomek, un affermato conduttore televisivo, amato da una donna che gli ha dato da poco un figlio, da un giorno all’altro decide di salvare la vita di un padre irriconoscibile e abbandonato a se stesso. “E’ una storia sulla ricerca d’amore per un’altra persona e il bisogno di darne, di circondare d’amore la persona che ne ha bisogno anche se non vuole. Un bisogno del quale l’eroe principale non si era mai accorto”, spiega l’autore.
In Oslo, August 31st la vicenda si svolge nell’arco di un’intera giornata, quella vissuta dal 30enne Anders che, per sostenere un colloquio di lavoro, è autorizzato a lasciare la comunità di ex tossicodipendenti dove è sottoposto a un programma di riabilitazione. Bello, intelligente e di buona famiglia Anders tenta di riallacciare rapporti, di sconfiggere i propositi di suicidio, di dare un senso al proprio futuro. Joachim Trier, al suo secondo lungometraggio – il primo Reprise venne premiato a Lecce con l’Ulivo d’oro – sceglie di fare “film su chi è apparentemente privilegiato e fortunato. Divento sempre un po’ triste quando la gente dice che la vita va così bene in Norvegia, che non c’è niente da raccontare, che non abbiamo conflitti. Sono in totale disaccordo. Ci sono tragedie anche nella vita della classe media”.
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