Nascosti tra le radici degli alberi delle Langhe ci sono le pepite più preziose che la terra possa offrire: i tartufi bianchi d’Alba. Trifole – Le radici dimenticate, secondo lungometraggio di Gabriele Fabbro in uscita nelle sale il 17 ottobre distribuito da Officine UBU, ci racconta la storia di una giovane donna, Dalia, che arriva da Londra per vivere con l’anziano nonno in un paesino tra le vigne. Divisi da un’incomunicabilità linguistica e dalla demenza senile che ormai attanaglia l’uomo, i due costruiranno un rapporto di fiducia e affetto. Quando Dalia scoprirà i debiti del nonno, andrà con il piccolo Birba, il suo esperto cane da tartufo, alla ricerca del tesoro che possa salvarlo dallo sfratto.
Protagonista del film è l’attrice sudafricana Ydalie Turk, con lei l’esperienza di Umberto Orsini (nonno Igor) e quella di Margherita Buy, nei panni della madre di Dalia.
Gabriele Fabbro, Trifole viene fuori da una ricerca approfondita nelle Langhe. Cosa l’ha spinto a cimentarsi in questa ricerca?
Mangio tartufi da sempre, mi piacciono. Quelle poche volte che li mangiavo, c’era sempre lo chef o il cameriere che ti raccontava la storia, come era arrivato al ristorante quel tartufo. Dicevano che i trifolai non gli dicevano dove li trovavano, che c’erano un sacco di segreti. A me i segreti piacciono, mi incuriosiscono molto e sono andato nelle Langhe nel 2022, senza un’idea di sceneggiatura ma per essere una spugna, assorbire qualsiasi storia delle persone di quel posto. Era un mondo sconosciuto per me, è stata una scoperta. Il perno è stato incontrare questo trifolao, Igor Bianco, da cui viene fuori il protagonista, che mi ha trasmesso un po’ l’amore per la natura, questo rispetto costante per i tempi dettati dalla natura. Mi sono innamorato quando mi ha detto che lui aveva queste piantine. Non c’è un metodo per coltivare il tartufo bianco ancora, per cui ha piantato in tutta la sua casa queste piantine che ha fertilizzato con delle spore di tartufo ed è convinto che tra 20 o 30 anni faranno i tartufi.
Se ha l’età del nostro protagonista, non ci sarà per sapere se aveva ragione o no.
No, non ci sarà, però è convintissimo che ne uscirà qualcosa. Questa passione folle me l’ha trasmessa e volevo innanzitutto parlare di lui.
Nel personaggio di Igor, quanto c’è di questo trifolao, quanto di Umberto Orsini, che lo interpreta, e quanto di suo nonno, a cui si è ispirato?
A livello di sceneggiatura è nato tutto da Igor Bianco, sulla costruzione dei comportamenti e del carattere ho preso molto da mio nonno. Aveva il Parkinson, che nel film abbiamo sostituito con la demenza senile. Volevo un personaggio come lui: frizzante, molto curioso. Mio nonno era la classica persona che chiami se c’è qualcosa da aggiustare, un po’ un tuttofare, si arrangia e trasmette una gioia di vivere. Ho parlato molto dei miei ricordi con Umberto Orsini, la prima cosa che gli ho detto è stata proprio che mi ricordava molto mio nonno, nei modi di fare. Con me si è aperto tantissimo, in un modo che non mi sarei aspettato. C’è stata una sorta di rispetto reciproco per il nostro lavoro e tanta voglia di farlo bene. Lui con la sua voce teatrale e ipnotica, si è concentrato molto sul modo in cui parla questo personaggio, che è una guida per la nostra protagonista. Ha lavorato con la curiosità di un bambino, non mi sarei mai aspettato una cosa del genere da un attore del suo calibro. È stato un dono averlo sul set.
Quale è stato l’apporto di Ydalie Turk, che ha partecipato anche alla fase di scrittura. Come si è cucita addosso il personaggio?
Lo abbiamo scritto pensando a un contrasto tra la tradizione e la modernità. Volevamo sollevare una critica sulla modernità che annienta, che rende insicure le persone, dicendo loro di essere veloci e individualisti. Questo ha spinto Dalia a essere confusa e a sopprimere tutte le passioni genuine che aveva. Doveva essere una giovane disillusa, qualcosa in cui ci ritrovavamo molto. Ci siamo accorti che stavamo scrivendo un po’ di noi, delle nostre esperienze, schiacciati da questo mondo moderno. In più Ydalie ha questo volto un po’ all’antica che si sposava bene per quel personaggio lì. Da regista giovane lotto sempre per avere almeno un protagonista emergente. Voglio dare voce ai miei coetanei.
Per quanto riguarda la messa in scena, ho apprezzato molto la scelta di accompagnare queste splendide immagini naturali a della musica classica, che tra l’altro è stata registrata dal vivo per l’occasione. Da dove viene la scelta di fare questo sforzo?
Per me l’approccio musicale nel cinema è una delle cose che vorrei cambiare, so che sarà la mia battaglia. Vedendo i concetti che esprimiamo nel film, ovvero preservare le proprie radici, mi è sembrata la cosa migliore coinvolgere un’orchestra del territorio. Avevo bisogno che la colonna sonore venisse fatta dal vivo. Sono stato molto rigido, anche in fase di finanziamento, di lasciare un budget per la colonna sonora. I temi classici sono venuti per rispettare la nostra tradizione, ci sono alcuni temi di Ottorino Respighi, autore di capolavori come il Notturno, che è il tema principale del film. Ci sono poi le danze sinfoniche di Rachmaninoff che usiamo per la scena della pioggia. Mi piace molto utilizzare la musica in maniera visiva, piuttosto che fare sentire un suono, associarlo a uno strumento. Vorrei che si continuasse a fare quel lavoro iniziato da Morricone e Leone con gli spaghetti western: credevano fortemente che la musica facesse parte della sceneggiatura, la usavano come un metodo di scrittura per trasmettere meglio le emozioni. Una cosa che non riesco più a trovare nel cinema moderno.
Quindi lo studio sulle musiche è stato fatto già in fase di sceneggiatura?
La sceneggiatura è arrivata dopo le musiche. La scena della pioggia non ci sarebbe stata se non avessi sentito la musica di Rachmaninoff: ogni volta che la sentivo, immaginavo gli alberi che si muovevano. Quella scena è stata dettata letteralmente dalla musica. Vorrei che questo metodo venisse insegnato nelle scuole di cinema.
Per non mostrare mai la minaccia che arriva nella seconda parte del film, incarnata da altri cacciatori di tartufo?
Principalmente per due motivi: il primo perché semplicemente lo trovavo più curioso, anche perché da quello che mi hanno raccontato succede davvero così. I cani vengono avvelenati non si sa da chi. I trifalai si nascondono nei boschi. Il secondo motivo è perché il vero cattivo del film è la modernità. Un nemico prorompente che non so come sconfiggere. Nella seconda parte del film si vede come agita le persone, le scombussola, non le fa più umane. Nella parte ad Alba abbiamo anche voluto esagerare un pochettino per far venire fuori questa sorta di corsa all’oro. Il tartufo non è più una materia della natura che con fatica viene fuori, ma viene vista solo come una fonte di denaro. È stato tutto ispirato dalla realtà e le persone del territorio mi sono venute dietro, hanno capito perfettamente il senso della mia critica.
Come è stato lavorare con Margherita Buy?
Margherita ha sempre detto che sono un pazzo scatenato ed è una cosa che le piace. Non la conoscevo di persona, ma ho visto che ha sempre fatto questi personaggi emotivi. Questa sua insicurezza bellissima la porta nelle pellicole. Una cosa che serviva al film, perché doveva essere un altro personaggio annientato dalla modernità. È stata molto onesta nel rispettare la sceneggiatura.
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