Totem – Il mio sole, al cinema dal 7 marzo con Officine UBU, era in concorso alla 73ma Berlinale e ha vinto il premio della Giuria Ecumenica. In più ha un impressionante percorso nei festival di tutto il mondo, più di sessanta partecipazioni, con premi vinti a tutte le latitudini e ha anche rappresentato il suo Paese, il Messico, nella scorsa edizione degli Oscar.
Segni evidenti che questo piccolo film, questo quieto e doloroso dramma familiare da camera, quasi tutto girato in un appartamento come La famiglia di Ettore Scola, ha un’universalità che tocca il cuore degli spettatori, ovunque. Diretto da Lila Avilés, attrice e poi anche autrice dal 2019 con l’opera prima The Chambermaid, ha una qualità autobiografica e molto personale. “Per me è sempre emozionante – afferma la cineasta – quando le persone colgono qualcosa che risuona con la loro storia o associazioni con la propria famiglia e amici. Questa è la virtù dell’arte: trascendere le barriere che tutti costruiamo e accogliere gli altri nella nostra vita interiore, la nostra casa interiore”. E il concetto di casa, come depositaria di tutte le vicende dei suoi abitanti, come microcosmo compiuto, è chiarissimo nella struttura del film che si conclude proprio con l’immagine di una stanza ormai disabitata.
Totem Il mio sole è una storia narrata dal punto di vista di una bambina di sette anni. E’ lei il sole del titolo italiano, Sol, interpretata da Naíma Sentíes, con la sua fragilità, la sua saggezza che la spinge a porsi domande filosofiche (che rivolge all’intelligenza artificiale di Siri) sulla fine del mondo. Davvero il suo mondo sta finendo: Sol è confrontata con qualcosa di molto più grande di lei, ma anche di noi adulti, qualcosa che capisce e capiamo solo in parte e gradualmente. Quando la incontriamo è in un bagno pubblico con la mamma e sta seduta sul water. Madre e figlia giocano, scherzano, Sol prova una parrucca riccia arcobaleno e un naso rosso da clown. Si stanno preparando ad andare alla festa di compleanno del papà della piccola. Oggi lui vive nella casa dei suoi genitori, accudito da una badante e dalle due sorelle perché non è più autosufficiente. Ben presto scopriamo che il giovane uomo, un pittore, è afflitto da una gravissima malattia ed è in uno stato di prostrazione. Per questo, durante la prima metà del film non vuole incontrare Sol, a cui tutti dicono che il papà sta dormendo.
Nella grande casa con giardino di questa famiglia colta e borghese, che ora vive gravi difficoltà economiche, regna sovrano un caos fisico ed emotivo. In parte per la preparazione della festa ma molto più, e sottilmente, perché tutti sono turbati dall’incombente lutto e ciascuno reagisce a suo modo. C’è chi si rifugia in cucina sfornando e bruciando torte, chi si affida ai rituali di una sensitiva che percepisce e scaccia – dietro lauto compenso – gli spiriti maligni, chi cerca nell’arte una risposta impossibile da trovare. E poi ci sono i bambini con la loro spontanea vitalità, la capacità immediata di entrare in sintonia con gli animali e con le cose, ma anche la forsennata ricerca della verità che viene negata dagli adulti, non per malvagità ma per inadeguatezza.
Attenta ad ogni singolo dettaglio ma anche alla composizione di un quadro d’insieme, Lila Avilés – che cita tra i suoi modelli il lavoro di John Cassavetes – non si smarrisce mai lungo un percorso narrativo estremamente libero che gioca su tutta la gamma delle emozioni, dalla tenerezza alla rabbia, dal gioco gioioso alla disperazione, insomma dalla vita alla morte. In tutto questo conta moltissimo il “lessico familiare”, come direbbe Natalia Ginzburg, quel modo di parlare e di tacere, cioè di comunicare, che è peculiare ad ogni famiglia e in qualche modo unico.
Mentre il protagonista Tonatiuh (Mateo García Elizondo) combatte con i fantasmi della sua lucida agonia, tra dolori fisici e domande all’I Ching, il libro cinese dei mutamenti, sua sorella Nuria (Montserrat Maranon) che si è rasata i capelli in segno di solidarietà, si attacca alla bottiglia. L’altra sorella Ale (Marisol Gasé) cerca una qualche risposta nella pratica New Age e ha convocato una specie di sciamana per scacciare la cattiva sorte, il padre di Tona (Alberto Amador), che ha subìto un intervento alle corde vocali, è uno scontroso psicoanalista che regala al figlio un bonsai che il figlio non vedrà mai crescere, mentre la piccola Sol e la mamma Lucía (Iazua Larios) hanno in serbo per lui un oggetto magico che può rivelare un futuro grazie ai semi di tamarindo. Un futuro che non c’è.
“La vita e la morte – spiega la regista – sono una dualità, proprio come saggezza e ignoranza, dentro e fuori, giorno e notte, sole e luna, luce e oscurità, yin e yang. Un’altra dualità che m’interessa profondamente è quella del tempo e della durata. Il tempo misurato e la nostra percezione del suo trascorrere sono molto diversi, anche se entrambi descrivono un’identica sequenza di eventi. Tutti abbiamo vissuto giorni che sembrano mesi e giorni che passano in pochi secondi. La nostra percezione del tempo è spesso plasmata dagli spazi che abitiamo mentre il tempo passa”.
E conclude: “Come diceva Tolstoj: ‘La verità, come l’oro, non si ottiene dalla sua crescita, ma lavando via da essa tutto ciò che non è oro’. E mentre la verità stessa può sembrare sfuggente, una volta scesi all’essenziale, ci si ritrova nelle parole di Cassavetes: Tutto riguarda l’amore”.
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