E’ il portoghese del cinema italiano, Tonino De Bernardi. Con l’anomalia come segno congenito e un fare film in progress, sfacciato, provvisorio, in preda a pulsioni e distorsioni. Uno che ama rispecchiarsi negli occhi degli altri, nelle parole che i suoi fotogrammi notturni – corpi e geografie apparentemente convulse, poi sorprendentemente strutturate – suscitano. A Locarno è arrivato con La strada nel bosco, videolavoro di 105’ in concorso tra i Cineasti del presente. Una sala piena di giovanissimi a vederlo, nonostante il nubifragio che ha sbarrato l’altra sera la Piazza Grande. Con lui la figlia Giulietta e Alberto Momo, attori e anche autori di un altro video, Il paese delle rane, genitori di una bimba appena nata e già inquadrata dalla videocamera di Tonino con una necessità spudorata di rincorrere la vita che scorre.
Sarebbe quasi un po’ osceno, se non ci fosse dietro una leggerezza infantile. La strada nel bosco evoca una canzone popolare, come le altre che costituiscono i soli dialoghi in questo film e spiegano in parte gli incontri dei personaggi, strani triangoli di maschile-femminile che ci riportano indietro negli anni, a una sessualità tra le due guerre, più che mai ambigua. Una parte di questo lavoro l’avevamo già vista a Bellaria, al festival di Enrico Ghezzi, a cui il film è anche dedicato: ma con un altro titolo, Interiora.
Perché questo cambiamento?
Interiora mi è sembrato pesante, si perdeva il senso etimologico, dal latino, e restava quello corrente in italiano, fegato e milza. La strada nel bosco è una frase che appartiene alla memoria collettiva italiana: una canzone che mia madre mi cantava sempre, però fa anche pensare ai percorsi del film: i Wege di Heidegger, i sentieri per il lago di Ingeborg Bachmann…
Hai giocato con i personaggi: coppie, triangoli…
Forse perché sono Gemelli, doppio, triplo. Dal ’68, da quando faccio cinema, mi interessa la coppia, sono partito dall’immagine del sarcofago etrusco con le coppie sdraiate. All’inizio il terzo ero io, dietro alla cinepresa, come il bambino nella scena primaria, ora l’ho esplicitato. C’è attrazione e incontro, ma anche conflitto.
Perché usi gli inserti documentaristici – il forno del pane, un viaggio in Thailandia – per interrompere la narrazione?
Sono i due estremi del mio cinema: l’invenzione totale, da un lato; la fedeltà alla realtà dall’altro. A guardare la vita e le persone starei a bocca aperta per ore, come facevo nei miei super8, in Donne per esempio.
A Venezia porterai un film nei Nuovi Territori.
Sì, Fare la vita, la storia di un ragazzo e una ragazza che si prostituiscono. Il titolo mi piace perché rimanda al mestiere di chi “batte” ma anche allo sforzo di creare l’esistenza. L’ho girato in digitale ma lo riverserò in 35 mm come anche La strada nel bosco, perché un lungometraggio in video è più difficile, quasi impossibile, da far accettare ai distributori.
Le presenze saranno le solite del tuo cinema.
Mia figlia Giulietta e Filippo Timi. Il film, che è ambientato a Torino, mi ha fatto venire voglia di esplorare la prostituzione vera, così sono stato al primo congresso mondiale delle sex workers a Venezia. E lì ho conosciuto Pia Covre, che nell’82 fondò il comitato per i diritti civili delle prostitute: mi è venuta voglia di lavorare con lei per un documentario un po’ fiction.
La prostituzione ti attrae molto: è come se fosse una metafora del tuo modo di lavorare e di chiedere tutto agli attori.
Hai ragione. La prostituzione rende le cose più esplicite, ma nella vita affettiva tutto quello che hai e che dai ha un prezzo. Alle persone che lavorano nei miei film aderisco totalmente e chiedo altrettanto: per questo sono tanto grato agli attori.
“Appassionate”, il tuo lungometraggio che era in concorso a Venezia nel ’99, come lo consideri ora?
È stato un grande momento, ma mi ha anche fatto soffrire. Ho aspettato quattro anni per farlo e poi non lo considero diverso da questi lavori sperimentali. Però è chiaro che è più facile distribuire Appassionate che i video e io non vorrei tenere niente per me: faccio un cinema estremo ma non per pochi.
Ti senti un estraneo nel cinema italiano?
La mia migliore amica, fra i registi che vivevano in Italia, è stata Teresa Villaverde, che fino a luglio dell’anno scorso stava a Roma… Stimo Mario Martone, Capuano, Gaudino e Isabella Sandri, Ciprì e Maresco, anche se non li frequento. Sull’Italia c’è da fare un discorso più generale: la nostra cultura si è imbastardita, è dominata dal modello televisivo e così è difficile produrre un grande cinema.
Per il tuo, di cinema, è stato decisivo il fatto che alcuni critici credessero in te.
È vero. Adriano Aprà, Enrico Ghezzi e Marco Melani, che purtroppo è scomparso, quindi Roberto Turigliatto.
Che ti ha selezionato per Nuovi Territori: unico italiano.
Sì, ma come ti ho detto mi considero un cineasta portoghese.
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