VENEZIA. Gli oceani sono i veri contenenti di Tommaso Santambrogio è il film di apertura, unico italiano in concorso, della 20esima edizione delle Giornate degli Autori della Mostra del Cinema di Venezia.
Il film è prodotto da Marica Stocchi e Gianluca Arcopinto per Rosamont con Rai Cinema ed è in sala dal 31 agosto distribuito da Fandango.
Sullo sfondo di una Cuba decadente e in un bianco e nero lacerato dalla pioggia caraibica, i giovani Alex e Edith, l’anziana Milagros e i bambini Frank e Alain, vivono la loro vita, fatta di piccoli gesti quotidiani, racconti del passato e sogni di futuro. Mentre lo spettro della separazione aleggia su tutti loro.
Il film è stato preceduto da un corto con lo stesso titolo…
L’idea del lungo viene prima, mentre seguivo i corsi della scuola di cinema a Cuba, pensavo all’idea di costruire un affresco della società locale, tramite il racconto di tre generazioni. Avevo iniziato a esplorare il concetto con Milagros, Alex e Edith e a cercare gli interpreti adatti per i bambini. Poi necessità di tempo e di scrittura, soprattutto perché volevo entrare bene nella loro realtà e passare più tempo a raccontarla adeguatamente, mi hanno spinto a focalizzare su una sola delle tre storie, e a realizzare il corto, che arrivò a Venezia nel 2019. A quel punto però avevo già un draft e un’idea per il lungo, quindi si può dire che il processo è stato inverso: dal lungo al corto. Il tutto poi è cambiato varie volte per via delle modifiche nelle vite dei personaggi e nella stessa struttura della società cubana.
Sembra che dopo la morte di Castro Cuba sia stata dimenticata. Cosa è accaduto nel frattempo?
E’ cambiata tantissimo, perché è arrivata la rete. Internet ora è accessibile a tutta la popolazione mentre fino a pochi anni fa era un lusso: per connettersi e chiamare i parenti e gli amici fuori dall’isola bisognava andare in piazza con una targhetta e un codice di riconoscimento. Ora è alla portata di tutti. Questo avveniva tra il 2018 e il 2019. Inoltre la storia di Cuba è stata indissolubilmente legata alla politica americana: nel 2015 Obama aveva proposto un’apertura, dove sembrava si aprissero finestre per l’impresa privata e a un mercato diverso, sebbene mantenendo gli ideali della rivoluzione. Insomma una nuova rivoluzione, ma sana, senza spargimenti di sangue o stravolgimenti, si pensava a questo. Poi è arrivato Trump che ha agito all’opposto e nemmeno Biden ha cambiato le cose, i cordoni dell’embargo si sono stretti ancora di più e questo ha portato all’implosione dell’economia. E poi, come ultima batosta, il Covid. Il mercato cubano si basa molto sul turismo, anche sui beni che vengono dall’esterno, al mercato nero. C’è stata una riforma monetaria complicata e questo ha portato a un forte fenomeno migratorio, gran parte dei membri della mia troupe se ne sono andati, e anche tanti amici con cui ho passato i miei anni a Cuba. E’ un momento di transizione molto difficile e di forte crisi. Bisogna capire se questo porterà anche a un momento di crescita e discernimento.
Infatti tra i protagonisti del film aleggia un senso continuo di perdita e di separazione e una contraddizione tra l’andare e il restare, ma tutto basato sul ‘non detto’.
E’ proprio quello che intendo per calarsi nella realtà cubana. E’ una cosa quotidiana, mi è capitato di partecipare a delle cene con gli amici dove si parlava di tutto tranne che della partenza, e il giorno dopo scoprivi che se ne è erano andati senza dire nulla. Per riuscire ad andarsene bisogna incastrare mille cose, non è detto che succeda fino all’ultimo, per questo non se ne parla e questo influisce sulle modalità in cui si vive la separazione, che è legata più a un sistema di sottrazioni che a grossi drammi. Nessuno si aggrappa al treno o strepita alla stazione, o in aeroporto. E’ una cosa molto personale, che costella la contemporaneità. Racconto storie singole in maniera umana, ma con respiro universale, magari legato a un discorso anche più collettivo. D’altro canto la separazione è intrinseca a ogni realtà umana, in tante parti del mondo, e noi italiani abbiamo vissuto la migrazione in molti punti della nostra storia, compresa quella odierna. Io stesso pur abitando in Italia ho lavorato molto più a Cuba che in patria.
Quanto è presente la lezione di Lav Diaz nel suo lavoro? Ho pensato anche a Roma di Cuaron…
Lav è un amico e un mentore, un grande riferimento. Il film di Cuaron è splendido, anche se ha un’attitudine drammatica e narrativa diversa dalla mia, anche rispetto al contenuto sociale. Certamente sono due maestri. Tra i miei riferimenti ci sono Miguel Gomes, Tarkovskij, Béla Tarr, Cold War di Pawlikowski, che mi hanno ispirato il lavoro sul bianco e nero, la composizione, l’immaginario. D’altro canto il bello di fare cinema è che tutto ciò che vedi e sperimenti a livello artistico e umano confluisce in ciò che fai, inoltre è un lavoro di squadra e ognuno ha le sue reference.
Ci parli del titolo, così evocativo…
Viene da una poesia struggente che parla di separazione. Significa che nonostante la distanza, i sogni infranti e le possibilità perdute i veri rapporti e sentimenti sopravvivono, è un titolo lungo ma sa evocare più che spiegare, emoziona ed è quello l’importante. La poesia mi è stata recitata dallo stesso Alex il giorno prima che tornassi in Italia, gli oceani possono colmare le distanze quando si incontrano sentimenti veri.
C’è una splendida sequenza realizzata con delle marionette. Oltre ad essere il lavoro di Edith, hanno un significato particolare?
E’ stata una gran lavorazione che ha richiesto mesi sulle scenografie e l’uso di diversi burattinai, per ricreare questo immaginario metafisico alla De Chirico, volevo una certa idea di universalità, per studiare il confine tra teatro e cinema, e quello tra cinema e realtà. Lì lavoro di piano e contropiano, come non faccio nel resto del film, e uso le uniche due dissolvenze di tutta la pellicola. L’obiettivo è sospendere il tempo e la realtà: è il momento in cui Edith con l’arte riesce a dire ad Alex quello che non è riuscita ad esprimere a parole. Anche lo spettacolo è una storia di separazione, tra padre e figlio. Anche qui c’è la poesia di mezzo: quella di José Martí, il più grande poeta cubano, che in esilio a New York scriveva al figlio: “figlio, spaventato da tutto, mi rifugio in te, tengo fede nel futuro, nella tua capacità e nella tua speranza”. C’è la musica, che a Cuba ha valenza sociale e morale, che unisce le due distanze, e i due burattini, padre e figlio, possono guardarsi attraverso una parete anche se sono in due luoghi del mondo distanti, anche sonoramente parlando.
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