Qual è il concetto di “spazio” per Robert Zemeckis? Lo spazio, per lui, non è solo un concetto fisico ma soprattutto emotivo, questo era d’altronde la celebre panchina di Forrest Gump: il regista americano riunisce adesso Tom Hanks e Robin Wright, a 30 anni da quel film, e ribadisce come un luogo, l’Here del titolo più recente, possa essere una scatola del tempo e delle emozioni, infatti “la vita è una scatola di cioccolatini, non sai mai quello che ti capiterà” affermava il protagonista della storia del 1994, parole queste che già riflettevano il senso della vita.
Here è un luogo specifico, la veranda vetrata di una casa edificata su quello che probabilmente è stato un territorio abitato dai Nativi: Zemeckis rende quello spazio un ambiente in cui tutto accade e, altrettanto, in cui tutto trova il proprio posto.
E lo fa, oltre che narrativamente, con una scelta estetica specifica, che mantiene per l’intero film: per entrare e uscire dal tempo e dalle stagioni della vita dei diversi personaggi ricorre a un’idea soggettiva di split screen, non messo in scena con l’usuale fenditura a metà dello schermo e/o con un montaggio parallelo, o ricorrendo a più classici flash back intuibili o colorati di bianco e nero per passare la sensazione di passato, bensì disegna letteralmente i profili di figure rettangolari, come fossero cornici, come finestre che dal mondo reale dell’Here s’affacciano e fanno immergere su un altro tempo/momento o tornare al presente, mantenendo come nucleo assoluto la veranda, cuore spaziale dentro cui si susseguono – si inseguono, e convivono – le esistenze di generazioni di famiglie, per raccontare l’essenza dell’esperienza umana, nei suoi estremi, e nelle sue sfumature, dall’amore alla perdita.
Zemeckis firma anche la sceneggiatura con Eric Roth, traendo ispirazione dalla graphic novel di Richard McGuire, ispirazione anche per la scelta grafica.
Se i dinosauri hanno calpestato quella terra, che s’è trasformata tra le fiamme dell’evoluzione della Natura, scrivendo la fine di un’Era, l’inizio del tempo a venire è a contrasto, candido per la neve e verdeggiante poi: è lì – o qui, Here – che cresce l’essere umano e anche la casa protagonista, in cui conosciamo per la prima volta Richard Young (Tom Hanks), punto d’inizio umano del viaggio circolare della propria esistenza ma, altrettanto, di quella dell’intera umanità.
Se c’è un padre, Al Young (Paul Bettany), inseguito dai fantasmi della guerra, c’è un figlio che guarda il mondo dal vetro della veranda e sin da piccolo lo disegna, come continuerà a disegnarlo – sulla carta, nella metafora, e nella concretezza quotidiana – diventando adolescente e padre, sì perché è al liceo che conosce Margareth (Robin Wright), che ha l’ispirazione di studiare Giurispridenza, ma l’amore la porta a mettersi in secondo piano e scegliere di essere mamma e donna di casa per la più parte del tempo della vita, una vita trascorsa – da lì alla fine – in quel soggiorno… in cui fa l’amore, in cui si sposa, dove partorisce e dove vede invecchiare i propri suoceri, dove trascorrono a ripetizione Natale, Halloween, compleanni, soddisfazioni e frustrazioni.
Vanessa, la figlia di Richard e Margareth comincia la scuola e lì comincia esplicita anche la richiesta di lei a lui di avere “una casa nostra”, perché se nel nome della famiglia ha rinunciato alla carriera d’avvocato – come lui ha messo da parte il talento d’artista per un mestiere più solido e redditizio – lei, da lì, vorrebbe staccarsi, vorrebbe creare un proprio Here altrove, e così s’innescano altri futuri, luminosi per alcuni, bui per altri, come d’altronde è la vita…
Nell’arcobaleno delle circostanze dell’esistenza, Zemeckis tratta anche la morte, e lo fa a più riprese, con rispetto sì ma, altrettanto, con spirito ironico e lieve, capace di trasferire la malinconia della fine, ma – al contempo – anche di stemperare quella che è un’incontrastabile ineluttabilità.
La ciclicità del tempo è un cerchio della vita che torna nel film, così succede quando un gruppo di archeologi che studia la zona rintraccia una collana nativa e la mostra all’ormai anziana Rose (Kelly Reilly), la mamma del personaggio di Hanks; altrettanto, succede – come accennato – tra l’apertura e la chiusura del film; o, ancora, quando Vanessa al college s’iscrive alla facoltà che la sua mamma tanto avrebbe voluto intraprendere, portandola a dire, nel giorno del suo 50esimo compleanno: “ho rimandato le cose” – lo studio sì, ma anche un viaggio a Parigi -, un pensiero carico di fatalismo, rassegnazione, e fame di futuro.
Il tempo, poi, oltre che trascorrere, dà anche i propri segnali sull’essere umano, non solo con l’evidenza del passare cronologico – per cui nel film di Zemeckis c’è un’eccellente applicazione del de-aging sia per Hanks che per Wright, che attraversano circa mezzo secolo di vita nella storia – ma anche accennando e poi esplicitando gli interruttori della mente, con la memoria che può rarefarsi, cancellare interi pezzi di vita ma, a dimostrazione che talvolta la carica emotiva possa scuotere la meccanica cerebrale, il luogo – quel luogo – ancora una volta, e fino alla fine, si fa motore di vitalità, anche quella che sembra perduta. È a questo punto che Zemeckis – per la prima volta in tutto il racconto – sceglie di uscire… dalla veranda perché, se un mondo – e più d’uno – s’è creato, è cresciuto, s’è rinnovato, è defunto e rinato dentro quella stanza, il mondo assoluto continua… qui, Here appunto, ma anche tutt’intorno, e fuori, nel flusso perenne dell’evoluzione dell’umanità.
Here per il regista è un luogo, specifico, circoscritto, contenitore di vite e di sentimenti, ma è anche un “qui” che trasmette senso di un perenne presente, perché nel film guardiamo il susseguirsi di decenni e di disparate esistenze, ma ciascun momento è un “qui e ora”, dall’inizio alla fine, una sorta di costante adesso garantito dalla scelta di uno spazio, non solo architettura fisica che contiene gli esseri umani, ma architettura emotiva che ingloba, assorbe, eredita e partorisce continui e sempre attuali sentimenti.
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