“In questo momento ho un terrore sacro di essere sul palco, anche se si tratta di incontri meravigliosi: non ho dormito la scorsa notte”, confessa Tim Burton, attesissimo ospite alla Festa del Cinema di Roma, che oggi gli ha dedicato la giornata con un doppio appuntamento, una conferenza affollatissima prima, e un Incontro Ravvicinato altrettanto gremito poi, occasione per la consegna del Premio alla Carriera, ricevuto sul palco dalle mani di Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo e Gabriella Pescucci, nostrani premi Oscar amatissimi dal regista, come amato è uno specifico spaccato del cinema italiano. “È un po’ come stare al proprio funerale. Scherzo!”, esorcizza il regista, commentando il riconoscimento. “Sono cresciuto guardando il cinema di Bava, Fellini e Argento: ricordo che negli Anni ‘80, a Los Angeles, andai ad un festival di film Horror: mi ricordo il film La maschera del demonio di Mario Bava, un sogno in grado di catturare il senso onirico, cosa di cui in pochi sono capaci, tra loro Fellini e Argento. Poi, ho avuto la fortuna di lavorare con Ferretti e Pescucci, che con la loro opera creano il loro personaggio nel film. Ancora, Roma è la città dei sogni, questa città ha la capacità di catturarli, e ricevere il premio qui mi rende davvero felice”.
Una sensazione di purezza, forse anche nella franchezza di ammettere la paura – “terrore” ha detto più precisamente – per lo stare su un palco importante: Burton ha trasmesso questo sentire, raccontando, però, anche l’altra faccia del sentimento. “Una cosa di cui non ho mai avuto paura è fare quello che mi indicava la mia passione: va seguita senza la paura del fallimento, così si può veramente realizzare qualcosa di speciale. Mi sono sempre reputato uno fuori dagli schemi, e così sono stati questi i personaggi che mi hanno attirato: non ho mai cambiato la mia prospettiva, l’ho sempre vista così, senza molto pensarci. M’accusavano di essere ‘dark’, l’errore principale nei miei confronti: un’etichetta che non mi piaceva, con cui ho dovuto combattere, per questo non mi piace etichettare le persone”, riflette anche rispetto al più ampio e attualissimo discorso sul politicamente corretto e l’inclusività.
Una testimonianza delle sue parole Burton l’ha sempre messa in scena nelle sue opere, da Edward Mani di Forbice (1990) a Big Fish (2003), storie e visioni visionari, senza paura di addentrarsi nell’orrorifico come nell’onirico: “I sogni li ho sempre, adoravo già da piccolo il cinema: in fondo con questo mestiere si può sognare a occhi aperti; è importante essere creativi per creare qualcosa per se stessi, credo aiuti lo spirito umano. Sognare ad occhi aperti è qualcosa che ho sempre fatto, mi sembra di aver sempre visto le cose in modo diverso dagli altri, non è una scelta, sono così. Come Edward, che rappresenta la mia infanzia: io mi sentivo così e ho sempre amato le favole, che permettono di esplorare i sentimenti, aumentandone l’intensità. Così, sono stato fortunato a lavorare con artisti come Johnny Depp, pronti a sperimentare: mi piace lavorare con persone pronte ad andare oltre i limiti, mi piacciono gli attori a cui non piace osservare se stessi, ma cui piace il processo di creazione, come Michelle Pfeiffer quando ha interpretato Cat Woman. Io passo il tempo anche a guardare il cielo, gli alberi: bisogna guardare le cose cercando qualcosa di particolare, così facevo e così continuo a fare. E non mi pento di niente di quello che ho fatto: quello che fai, fa parte di te; forse alcune cose non vorrei ripeterle, ma non ho alcun pentimento”.
Le parole di Tim Burton accarezzano per la sincerità, che non censura, tutt’altro, in particolare parlando della sua ultima opera, Dumbo (2019): “Dopo il film ho quasi avuto un esaurimento, lavorando con Disney mi sono sentito io ‘dumbo’, una creatura fuori dal suo ambiente, è per quello che non ho ancora fatto un altro film, sono rimasto traumatizzato”. E non meno, definisce “Horrible!” la sua esperienza negli Anni ’80 con lo stesso Studio: “Sono solo brutti ricordi, i giorni più bui della Disney: c’erano persone di enorme talento, che poi sono diventate professioniste della Pixar, ma c’era una perdita di tempo nel processo creativo. Ho avuto l’enorme fortuna di essere un pessimo animatore, cosa che mi ha permesso di fare altro… Comunque, in effetti ho fatto solo film con gli Studios: nonostante questo, sono riuscito a fare ciò che volevo, ancora mi interrogo su come sia stato possibile! Per fortuna non hanno mai veramente capito cosa stessi facendo!”.
Dall’infanzia al futuro in un istante: Tim Burton ha raccontato, infatti, che “il primo film visto al cinema è stato Giasone e gli argonauti, indimenticabile, dentro una sala di Catalina Island, che sembrava una conchiglia: un’esperienza straordinaria”, ma il presente di Burton è la serie a cui sta lavorando, che “si chiama Wednesday e verte sul personaggio della famiglia Addams, abbiamo girato in Romania di recente; intendo lavorare ancora in stop motion in futuro, l’amo molto: non ho qualcosa in particolare in cantiere perché ci vuole un artista un po’ speciale per una forma d’arte particolare che richiede altissima specializzazione”.
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