“The Immigrant”. E la Croisette si tinge di mélo


CANNES – Ci si avvicina alla fine e il festival si arricchisce di altri potenziali vincitori. The Immigrant di James Gray, con Marion Cotillard, Joaquin Phoenix e un sorprendente Jeremy Renner in inedite vesti drammatiche, è un mélo molto classico, incentrato sulle disavventure di un’immigrata polacca (Cotillard) nell’America degli anni ’20. A strappare applausi alla fine della proiezione stampa è soprattutto l’ottimo cast, ma il film si distingue anche per un accurato lavoro di ricostruzione storica: “E’ stato girato effettivamente ad Ellis Island – racconta il regista – principale punto di ingresso degli immigranti in quegli anni. E abbiamo avuto non poche difficoltà, perché è un posto aperto ai turisti 365 giorni l’anno. Abbiamo girato principalmente di notte, usando, nel caso, artifici per schiarire l’illuminazione. Ora non si potrebbe fare, per via dell’uragano che ne ha notevolmente danneggiato il sistema elettrico. E comunque a livello scenografico la sfida è stata quella di riportare il tutto a quegli anni, basandoci solo su materiale fotografico”.

Per Marion Cotillard, intensa protagonista, la maggior difficoltà è stata invece dover imparare il polacco: “Il linguaggio è importante nella costruzione dei personaggi – afferma l’attrice – ognuno ha la propria voce e il suo modo di parlare. Il polacco ha poche parole simili all’inglese o al francese, e io dovevo gestire ben 20 pagine di testo. Il problema è che dovevo parlare in polacco senza accento, e non avevo alcun riferimento per capire se stavo facendo bene o no. Per fortuna avevo un eccellente insegnante. Ho capito che lingua e cultura si compenetrano e si arricchiscono a vvicenda. Per imparare bene una lingua devi calarti nella cultura che la produce”.

“Ammetto – dice il regista – di non aver guardato i film di Marion prima di sceglierla. Quando uscì La vie en rose stavo diventando papà, e non ho avuto l’opportunità di seguirla come attrice. Ma non è necessario conoscere i film di un attore per sceglierlo. Le ho parlato, ho trovato che avesse delle espressioni speciali sul viso e ho capito che era sensibile e intelligente. Questo mi è bastato. I film li ho visti dopo”.

Il film avrebbe dovuto inizialmente intitolarsi Lowlife, “ma ho preferito scegliere un titolo più semplice – spiega Gray -perché sarebbe stato difficile rendere il significato in altre lingue e inoltre si sarebbero create confusioni con il quasi omonimo romanzo di Luc Sante. Ho scelto di raccontare questa storia – conclude il regista, legato a una famiglia ebrea di origine russa – per dare il mio sguardo sull’immigrazione, fenomeno al quale sono assolutamente favorevole, perché aggiunge ricchezza e profondità alla cultura di una nazione. All’inizio gli immigrati sono sempre mal visti: è successo con gli italiani, con gli ebrei. Si diceva che fossero stupidi, svogliati e naturalmente portati ad azioni criminali. Alla fine si sono integrati. Gli argomenti dei razzisti sono sempre gli stessi, i pregiudizi si ripetono. Ma la storia dimostra il contrario”.

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24 Maggio 2013

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