The Cave in gara per l’Oscar

Vincitore del Mese del Documentario The Cave di Feras Fayyad debutterà su National Geographic il 9 febbraio alle 20.55, proprio poche ore prima dell'assegnazione degli Academy Awards a Los Angeles


L’esplodere delle bombe, rumori amplificati, urla, pianti; arrivo continuo di feriti, fra i quali tantissimi bambini, malnutriti, coperti di sangue e in stato di shock; poche medicine, cibo mai sufficiente. Una realtà quotidiana da incubo a Ghouta est, area vicino Damasco, rimasta per cinque anni sotto un violentissimo assedio. Un viaggio tra morte, coraggio e abnegazione, nel quale ci immerge The Cave di Feras Fayyad, film non fiction, vincitore, fra gli altri, del premio del pubblico a Toronto e in gara per l’Oscar come miglior documentario, che debutterà su National Geographic il 9 febbraio alle 20.55, proprio poche ore prima dell’assegnazione degli Academy Awards a Los Angeles.

Fino al 2018 migliaia di vite sono state salvate in un ospedale sotterraneo, dallo staff di medici e infermieri guidato dalla pediatra di 30 anni (compiuti nel pieno dei bombardamenti), Amani Ballour, prima donna direttore di un ospedale in Siria. Fayyad, esule siriano che vive al momento in Danimarca, già candidato agli Oscar nel 2017 con un altro documentario sulla guerra nel suo Paese, Last men in Aleppo, nelle settimane scorse è stato anche al centro di un caso diplomatico, quando si è visto rifiutare, a causa del travel ban voluto da Trump, il visto per l’ingresso negli Usa, che gli è stato concesso solo qualche giorno fa. Nel film (vincitore in Italia del Mese del documentario), anche attraverso un incredibile lavoro sul suono, ci porta al centro di un luogo diventato, a causa dei continui bombardamenti, quasi fantasma in superficie, con la popolazione che cercava scampo agli attacchi aerei, rifugiandosi in spazi e tunnel scavati nel sottosuolo. E proprio The Cave, ‘la grotta’ è il nome con cui venivano chiamati i sotterranei dell’ospedale, unica parte operativa della struttura di sei piani, distrutta in superficie. Lo sguardo che ci guida è principalmente quello di Amani, che oltre a confrontarsi con la violenza della guerra, deve affrontare le resistenze di molti uomini nel vedere una donna a capo di un ospedale invece che “a casa a prendersi cura del marito e i figli” come gli rimprovera il marito di una paziente. “Ho sempre saputo di vivere e operare in una società razzista e autocratica – spiega nel film la pediatra -. La religione per gli uomini è uno strumento, ne prendono solo le parti che gli fanno comodo”. Lei però non si fa fermare da nessuno e oltre ad essere in servizio quasi 24 ore su 24, offre una via di uscita anche a tante donne e madri rimaste sole, offrendo loro lavoro nell’ospedale. A supportarla e mostrare uguale coraggio uno staff di cui fanno parte tra gli altri, il chirurgo Salim, che opera, con in sottofondo, dallo smartphone, musica classica per rasserenare i pazienti; l’amica, anche lei pediatra Alaa e l’infermiera Samaher, che nonostante i postumi di una ferita alla testa che le ha provocato una parziale amnesia, continua il suo lavoro e si occupa spesso anche di preparare i pasti ai colleghi. Lo stop definitivo e il trasferimento per abitanti della zona, medici e pazienti arriva nel 2018 dopo quello che l’Onu ha rilevato essere stato un attacco chimico. “Ci sono bambini che non posso dimenticare – ha spiegato a National Geographic Amani, che oggi vive in Turchia, ed ha da poco ricevuto il premio Raoul Wallenberg dal Consiglio d’Europa per il suo impegno -. Alcuni dei bambini che mi era capitato di curare nell’ala pediatrica per l’asma o altri disturbi li ritrovavo feriti. Era come curare la propria famiglia”.  

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03 Febbraio 2020

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