Texas Killing Fields: thriller di famiglia


Sono stati molti i film, durante la 68ma Mostra di Venezia, a mettere in scena quadri familiari decisamente disfunzionali: dalle violente e ridicole dinamiche parentali del Killer Joe di Friedkin a Claudia Pandolfi, madre inadeguata in Quando la notte di Cristina Comencini, passando per le infanticide di Maternity Blues, film di Fabrizio Cattani passato in Controcampo Italiano.

 

Strutture analoghe compaiono anche in Texas Killing Fields, in concorso, interpretato da Sam Worthington, Jeffrey Dean Morgan, Jessica Chastain e Chloe Moretz, bimba prodigio di Kick Ass e Let me in. Ma la famiglia che sta dietro alla creazione del film, esclusiva per l’Italia Rai Cinema distribuita da 01, costituisce invece una squadra perfetta: la regia è infatti di Ami Canaan Mann, figlia di Michael, considerato uno dei più grandi autori viventi, che qui compare in veste di produttore.

 

Lui, dai tempi di Manhunter – Frammenti di un omicidio, nel noir e nel thriller ci bazzica da sempre. Pochi lo ricordano, ma proprio quel film, cinque anni prima de Il silenzio degli innocenti, compariva per la prima volta il personaggio del cannibale Hannibal Lecter, interpretato da Brian Cox. Ami non si distanzia troppo, prendendo però punto da una storia realmente accaduta, attorno a Texas City (anche se è girata in Louisiana), che vede due detective accollarsi l’onere di scoprire la verità attorno a omicidi di giovani donne, di basso profilo sociale, di cui a nessuno pare interessare.

 

Anche lo stile è simile a quello di papà: trama lineare, montaggio chirurgico, fotografia asettica da documentario.
“Era molto importante che l’approccio fosse realistico -racconta la regista, accompagnata al Lido dall’eminente genitore – Bisognava poter credere di vivere quegli eventi, entrare nell’ottica di una realtà dove l’omicidio è di casa. Ho cercato l’autenticità degli attori: il sabato andavamo all’obitorio. Non è piacevole, ma bisognava farlo. Anch’io vengo dall’Occidente degli USA e volevo raccontare a fondo quella realtà, anche sottolineando il grande divario che c’è tra classi sociali. Sarebbe facile pensare che il responsabile degli omicidi è solo l’uomo nero. Purtroppo spesso il colpevole è qualcuno che si conosce, che si nasconde in famiglia. Eppure la madre del mio film ama sua figlia, cerca anche di salvarla, di portarla fuori dal pericolo, ma sono le decisioni che prende ad essere sbagliate. Per quel che mi riguarda, avere mio padre con me è stato un gran vantaggio. Essendo regista sa giostrarsi bene tra le esigenze di produzione e le scelte estetiche e artistiche di chi sta dietro la macchina da presa”.

“Nella nostra famiglia si è sempre lavorato sodo – fa eco Mann senior – lei ha spesso assistito ai miei set e questo è diventato un fattore importante della sua vita. Ma ovviamente mette dentro anche molto di suo. E’ una donna e una madre, quindi riesce anche a entrare in un contatto più particolare con i suoi personaggi, sia i detective che le vittime”.

“Il territorio del Texas sembra essere popolato da fantasmi – dice ancora la regista – E’ attraente ma anche repellente: vuoi capire cosa è successo ma hai anche paura di scoprirlo. Volevo trattare le vittime con rispetto: non sono un veicolo per raccontare i sentimenti di qualcun altro, ma sono le protagoniste. Ho inserito delle voci di donna nel film, come se costantemente parlassero ai detective per indicar loro la strada per trovare il colpevole. Io penso che lo facciano davvero. Anche la natura mi ha aiutato: la Louisiana è molto simile al Texas, con la sua zona paludosa e gli alberi scheletrici, belli eppure spaventosi, che diventano simbolo dell’omicidio stesso. Erano gli alberi, spesso e volentieri, a indicarmi dove piazzare la macchina da presa!”.

Del resto, chi non ricorda la famiglia di pazzi antropofagi di Non aprite quella porta, in originale, appunto, The Texas Chainsaw Massacre? Anche quel classico dell’horror era ispirato, seppur liberamente, a fatti di cronaca.
“Là intorno giravano davvero i cannibali – racconta lo sceneggiatore Donald F. Ferrarone – Io stesso ho lavorato al Federal Law Enforcement degli USA, ormai dieci anni fa, e ho incontrato i due detective che poi sarebbero diventati i protagonisti della mia storia. Molte delle vittime venivano da fuori, e i loro corpi erano talmente sfigurati che nemmeno si poteva ricostruirne l’identità. Tutte vittime di ‘basso profilo’, di cui a nessuno sarebbe importato, se questi due personaggi, realmente esistenti, di grande senso morale e spiritualità, non si fossero presi la briga di indagare sulle loro morti”.

“Quando mi è stato proposto lo script – continua Ami-  ho fatto naturalmente le mie ricerche. Mi ha particolarmente impressionato un articolo dove si vedeva una mappa che questi poliziotti avevano nel loro ufficio, che indicava i luoghi dove le vittime, quasi tutte giovanissime, in età scolare, erano state rinvenute. C’erano le loro foto, con gli occhi che mi fissavano ed era come se volessero dirmi qualcosa. Ho sentito il bisogno di aiutarle, raccontando la loro storia”.

autore
09 Settembre 2011

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