BERLINO – Ci sono due facce del terrorismo, due luoghi caldi della violenza e due diverse forme di umanità per contrastarli in Shadow Dancer e Captive, passati alla Berlinale nella selezione ufficiale. Il primo, firmato dal premiatissimo documentarista James Marsh, è un thriller puro che scivola nella spy-story, ma esplora con nitidezza le motivazioni dei suoi eroi: Clive Owen, che fu l’eroe stropicciato de I figli degli uomini e il sex symbol di The Closer, e Andrea Riseborough, già vista in Happy Go Lucky e We Want Sex.
Con Shadow Dancer i due rievocano i tempi più bui della lotta terroristica dell’Ira quando, nei primi anni ’90, esplodevano bombe e fioccavano attentati. La Riseborough è Colette, attivista insieme ai due fratelli e madre single che, una volta arrestata, viene messa di fronte a una scelta impossibile: accettare di fare da talpa e riferire i movimenti dei familiari, oppure finire in prigione e rinunciare al figlio. E’ Mac (Owen) a porla davanti al bivio, un ufficiale del MI5 che si rivelerà meno cinico di quanto vorrebbe il suo ruolo. “E’ stato un conflitto duro, amaro, con cui io però non ho nessuna connessione particolare – dice il regista, premio Oscar per Man on Wire – Anche se è vero che ogni inglese è coinvolto dalla sofferenza di questo dramma nazionale. Ma io sono un regista, non un politico, né un moralista, e ho indagato nel cuore dei miei personaggi”. Al di là del codice di genere, infatti, Shadow Dancer è la rappresentazione di un conflitto soprattutto interiore, di un uomo e una donna confrontati con circostanze eccezionali.
Allo stesso modo, ma a migliaia di chilometri di distanza, anche Isabelle Huppert ha dovuto vestire i panni di una donna al confronto con circostanze estreme, perché Captive, del filippino Brillante Mendoza, l’ha immersa nella giungla filippina come ostaggio di un gruppo di terroristi islamici. Tratto da una storia vera, il film racconta tutti i passaggi del sequestro, dal rapimento alla lunga e violenta prigionia, quasi come fosse un documentario, in cui l’attrice francese veste i panni di una assistente sociale cattolica. “Ma il mio non è un personaggio – ha detto l’attrice – perché in quanto ostaggio non ero più niente. E’ un ruolo imparagonabile a qualsiasi cosa abbia fatto prima, perché in qualche modo ho dovuto annullarmi e lasciarmi andare alla storia, dove ognuno degli ostaggi aveva perso anche la sua condizione di essere umano”. Duro, violento, angosciante, Captive mostra appunto il progressivo annichilimento dell’umanità che avviene quando le persone vengono private, prima di tutto, della loro dignità. E l’insensatezza dei conflitti religiosi, che sta tutta in una frase che la Huppert urla in un momento di disperazione: “Non è colpa mia se tu sei musulmano!”.
Il tutto in un panorama umano da incubo, e in cui la natura può scagliarsi contro l’uomo con tutta la sua violenza, così come accoglierlo tra le sua braccia amichevolmente.
“Mentre giravo – ha detto la Huppert – leggevo il libro di Ingrid Betancourt sulla sua prigionia: mi ha aiutato a capire che significa essere ostaggio di qualcuno. Perché nonostante la sua situazione fosse molto diversa da quella del mio film, il cuore dell’esperienza resta lo stesso, e sentivo di condividere ciò che descriveva”.
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