TORINO. È un atteggiamento quasi rosselliniano quello che anima uno dei tre film italiani in concorso al TFF. A Giovanni Columbu, infatti, che ha firmato la regia di Su re (in sala con la Sacher di Nanni Moretti dal 21 marzo), quello che interessa non è la storia, che in questo caso riporta sul grande schermo il racconto della passione di Cristo, “la storia per eccellenza”, bensì i modi diversi di scriverla, di tramandarla, di rappresentarla, che – e questo, come sottolinea lui stesso, riguarda qualsiasi storia – generando nuovi punti di vista può svelare cose ritenute incomprensibili o altre che semplicemente non vengono colte a una prima osservazione.
Un desiderio di sperimentazione il suo che lo ha portato a mettere in scena il fatto narrato dai quattro Vangeli in chiave personale e di ricerca; a partire dall’ambientazione, che ricolloca il racconto in una Sardegna sospesa nel tempo, popolata da personaggi che sono un tutt’uno con il paesaggio, e che il regista ha scelto soprattutto per i loro volti, “per la loro capacità di vivere la sofferenza”.
Tutti attori non professionisti per una sceneggiatura ridotta a una serie di appunti, che però hanno permesso al regista di creare, di sviluppare delle azioni facendo improvvisare gli interpreti: “Sul set – spiega Columbu – ci limitavamo a leggere un passo del Vangelo, davo delle istruzioni e poi procedevamo con la messa in scena. Nessuna prova, per non perdere la freschezza, ma diverse ripetizioni a distanza di tempo. Alle volte per far crescere la tensione, senza preavviso, domandavo cose che sapevo essere più o meno impossibili, come proseguire la recitazione senza usare le parole. La cosa importante era sfuggire alla preordinazione della messa in scena e a gli effetti di un immaginario frutto delle precedenti rappresentazioni”.
Ed è anche per queste ragioni che l’autore ha voluto distanziarsi dall’immagine canonica del Cristo, che qui ha le fattezze di Fiorenzo Mattu, un volto bruno fortemente caratterizzato nei lineamenti, un “non bello” che però per Columbu è in grado si esprimere “quella dimensione interiore visibile – come dice la Bibbia – solo ai puri di cuore”.
Tra gli altri interpreti ci sono poi diverse persone provenienti da alcuni centri di salute mentale. “Di loro – afferma l’autore – mi ha colpito la capacità di partecipare agli accadimenti in maniera intensa e difficilmente ricreabile attraverso la recitazione”.
L’altro elemento che colpisce del film di Columbu – al suo secondo lungometraggio dopo Arcipelaghi, premio Bimbi Belli come miglior film nel 2003 all’Arena Nuovo Sacher – è la presenza di una violenza che si percepisce solo attraverso le reazioni dei personaggi che vi assistono. Un costante “fuori campo” in cui lo spettatore sa grazie allo sguardo e alle parole degli attori in scena e che costituisce il fulcro del film, tutto costruito sull’alternanza fra un presente in cui tutto è già accaduto e gli antefatti, che si riaffacciano sotto forma di ricordi o sogni dei diversi protagonisti.
“Ho pensato per la prima volta a questo film vent’anni fa – ammette Columbu – e quando finalmente sono riuscito a realizzarlo ho impiegato nove settimane a girarlo. Avevo tutto in mente e mi sono persino inventato una seconda unità indipendente da me per creare uno sguardo che fosse diverso dal mio e che sottolineasse le diverse prospettive che danno forma al racconto”.
Varie quindi le direzioni verso cui si muove la pellicola, e che sono in fondo, in qualche maniera, il riflesso di un’esperienza lavorativa che ha visto Columbu a contatto da prima con il mondo dell’arte (ha realizzato infatti diverse mostre di pittura e video arte, tra cui quella intitolata ‘Strategia d’informazione’, presentata alla Rotonda della Besana e alla Permanente di Milano) e poi con quello della televisione (ha lavorato dal 1979 al 1999 alla Rai come programmista regista).
Un lavoro articolato, dunque, quello che ha permesso la costruzione di Su re, ma che secondo l’autore non è paragonabile alla fatica fatta per ottenere i finanziamenti: “Ho impiegato così tanto tempo a girare Su re perché ho ricevuto tante porte in faccia. Ma ero convinto che prima o poi lo avrei realizzato. Raccontavo a tutti il mio progetto, tanto che avevo dato vita quasi ad un’altra opera: quella del racconto del film. In molti però mi sono stati vicini, ricevevo persino delle buste piene di soldi da amici ma anche da semplici conoscenti che credevano in quella che era diventata di giorno in giorno un’impresa quasi eroica. Poi ho deciso che non potevo più aspettare e che sarei partito ugualmente anche senza supporti. Proprio in quel momento, dopo aver fatto persino una sottoscrizione pubblica, sono stato premiato: prima la Provincia poi la Regione Sardegna si sono fatte sentire. In seguito sono arrivati anche Sacher e Rai Cinema”.
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