Steve Della Casa dedica ‘Il Cinema Di Giuseppe De Santis’ ad Andrea Purgatori

Nella Sezione Venezia Classici, Un’altra Italia Era Possibile, l’8 settembre su La7: l’intervista al giornalista e regista che dedica il doc anche a Luciano Sovena e ricorda Giuliano Montaldo​

Steve Della Casa dedica ‘Il Cinema Di Giuseppe De Santis’ ad Andrea Purgatori

VENEZIA – Chi era Giuseppe De Santis? La risposta alla domanda, con Un’altra Italia Era Possibile, Il Cinema Di Giuseppe De Santis, la dà Steve Della Casa: il documentario nella Sezione Venezia Classici e nella serata dell’8 settembre in onda su La7.

Fondi, la cittadina laziale di nascita, poi sempre considerata casa, sin da quell’11 febbraio del ’17 in cui venne al mondo; poi, gli studi universitari di Lettere e Filosofia presto messi da parte per sempre nel nome della vocazione cinematografica: De Santis è stato un cineasta e rimane perennemente un maestro: suo, uno per tutti – da Riso Amaro – il piano americano dell’esordiente Mangano, mondina nelle risaie, inquadratura che ha fatto scuola e Storia per il cinema mondiale, film per cui con Carlo Lizzani ottennero anche la nomination agli Oscar per il Miglior Soggetto Originale. La sua firma sulla sceneggiatura di Ossessione di Visconti e la collaborazione per il Desiderio di Roberto Rossellini, fino al suo primo lungometraggio, Caccia tragica (1948) – Nastro d’argento.

Per Paolo Virzì, quella di Peppe De Santis era una “aria dolce e modesta”; per Mario Martone aveva “la capacità di rapportarsi alle persone più giovani in maniera molto diretta”; Francesca Reggiani ne ricorda “il suo eloquio, sempre elegante”; e Silvia Scola, figlia di Ettore, rammenta quando il papà, oltre a riconoscerne la simpatia, anche “il suo impegno politico, fondante” e, a proposito di politico, ecco anche la testimonianza di Fausto Bertinotti che racconta: “ho visto i film di De Santis tanto tempo fa e in un’altra Era politico-culturale: li ripenso da straniero, in un mondo che si è separato da quella Storia”. Queste – e con loro molte altre, da Giuliano Montaldo a Gordona Miletic De Santis soprattutto, attrice ma in primis sua moglie – le memorie personali e professionali che nel doc lasciano impronte indelebili di chi fosse Giuseppe De Santis, che da questo racconto emerge come uomo solido su colonne granitiche per alcuni versi, ma altrettanto versatile nella creazione e nell’animo.

E, ancora, c’è De Santis stesso nel doc – con la sua stessa voce dal film Nella terra della pace e degli ulivi (1986) – in cui in particolare punta al cuore quando afferma: “Il Neorealismo ha avuto non un padre, ha avuto una grande madre, che è la Resistenza”.

Steve Della Casa, perché Un’altra Italia Era Possibile? Bertinotti dice: ‘ho visto i film di De Santis tanto tempo fa e in un’altra Era politico-culturale: li ripenso da straniero, in un mondo che si è separato da quella Storia’.

 Un’altra Italia Era Possibile perché Peppe De Santis racconta soprattutto la realtà delle lotte nelle campagne del dopoguerra e, come sappiamo, l’Italia, in quel periodo, da Paese agricolo diventa industriale, e le lotte contadine diventano via via sempre meno importanti; però racconta anche, attraverso queste lotte, le tensioni e le aspirazioni e le speranze che c’erano finita la Seconda Guerra Mondiale: c’era la speranza che nascesse un mondo nuovo, e lui – essendo dichiaratamente iscritto al Partito Comunista – aveva anche abbastanza in mente quale potesse essere quel mondo, cosa che poi non s’è verificata. E quando Bertinotti dice ‘l’ho visto in un’altra era’ parla di un’epoca – gli Anni ’70, in cui la fabbrica era un po’ il punto di riferimento –, che adesso non esiste più, e nemmeno le lotte sociali, quindi credo che questo sia il suo essere ‘straniero’. Io, con questo titolo, volevo raccontare uno che ha creduto che nascesse un mondo diverso e che col cinema volesse raccontare il processo verso quella direzione.

C’è stato un motore personale che ha avviato o guidato questo racconto su De Santis?

 Sì, perché io l’ho conosciuto nel lontano 1989, quando facemmo a Torino una grossa retrospettiva sul Neorealismo, che curò Alberto Farassino, e in questa occasione invitammo tre persone: Massimo Girotti, Carlo Lizzani e Peppe De Santis, e io sono rimasto molto legato a lui, perché è quello con cui ho famigliarizzato di più; e, ancora nel decennio successivo, ci siamo visti un sacco di volte, quando lui insegnava al Centro Sperimentale, che io non ho frequentato però andavo a trovarlo lì; mi piaceva molto la sua maniera di raccontare. E, con Giuliano Montaldo, appena mancato, credo fossero i più grossi narratori orali che io abbia conosciuto in vita mia.

Quando ha pensato di realizzare questo doc, cosa voleva raccontare – e cosa non – dell’uomo De Santis?

 Uno che smette di fare cinema per via di una coerenza politica potrebbe essere uno di quelli che negli Anni ’70 veniva chiamato un militonto, invece non lo era affatto: era uno molto aperto, non uno che si lamentava, tutt’altro, era uno a cui le cose brutte dovevi proprio tirarle fuori, infatti le cene con lui erano uno spasso; io ho voluto uscisse fuori la sua natura umana e poi un aspetto che da alcuni è sempre stato considerato un ripiego, cosa che per lui non era, ovvero l’insegnamento al CSC, infatti molti suoi allievi hanno aderito subito, Martone addirittura ha spostato impegni di produzione già fissati di agenda.

Tra le tante testimonianze, c’è qualcosa che l’ha stupita scoprire o che è così particolare che tiene a sottolineare? C’è quella incantevole, d’archivio, di Tonino Guerra, ma non solo.

 Siccome Riso Amaro è nato nella redazione de ‘l’Unità’ di Torino, cercavo due dirigenti comunisti torinesi che potessero raccontare quell’epoca e mi sono venuti in mente Violante e Bertinotti, e devo dire che ha funzionato benissimo con entrambi, seppur non siano due tipi facili, lo dico conoscendoli bene e essendo torinese anche io: per me quelle sono state le testimonianze più sorprendenti.

C’è qualcosa, del cinema italiano presente, riconoscibile come marchio di fabbrica suo?

 De Santis è l’emozione, racconta storie in cui non si spaventa di raccontare momenti emozionali forti. Dei registi contemporanei, quello che vedo più simile a lui, è Peppuccio Tornatore, uno che non ha paura delle emozioni: Ennio, il grande documentario di cinema, ti emoziona perché si capisce che lui, lavorando con Morricone, ha avuto delle emozioni, e le vuole trasferire al pubblico, e riesce a farlo. De Santis dovrebbe insegnare a chi fa cinema oggi che non bisognerebbe aver paura delle emozioni: sono una cosa pericolosa, se sbagli il dosaggio diventa ridicolo, però non bisogna aver troppa paura della ricetta, insomma bisogna osare.

Perché ha deciso di dedicare il film a Luciano Sovena e Andrea Purgatori, che in particolare con De Santis aveva un rapporto molto stretto? È stato suo assistente alla regia nell’ultimo lungometraggio, Un apprezzato professionista di sicuro avvenire.

Quella di Purgatori è l’ultima sua intervista ed è una persona a cui ho voluto un sacco di bene. Andrea, certo, aveva un rapporto stretto con De Santis: lui è venuto a registrare la sua testimonianza allo Spazio Scena, tra le 14 e le 14.45 di quel giorno, perché prima aveva una riunione a La7 e poi una prova in studio, e infatti gli ho detto: ‘questa è l’unica volta che ci vediamo e non magnamo pure insieme’ e purtroppo è stata anche l’ultima volta che l’ho visto, e questo mi fa un po’ impressione. Sovena era uno dei miei migliori amici ed è stato fondamentale per montare questo film, dal trovare i soldi in là: lo è stato come per tutte le cose che ho fatto, perché era uno di quelli che… era come portarsi dietro un paio di scarpe di ricambio; lui era così, uno sempre presente, come credo ci fosse sempre una traccia mia nelle cose che ha fatto lui; eravamo molti amici, nonostante storie completamente diverse.

Il doc è prodotto da Pierfrancesco Fiorenza, Andrea Lorusso Caputi – BEETLEFILM, produttore associato Massimo Vigliar – SURF FILM, in collaborazione con La7 e con la gentile partecipazione di Associazione Giuseppe De Santis.

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07 Settembre 2023

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