“Documentario” e “lavoro” sono da sempre due parole chiave nei programmi del Torino Film Festival, che non a caso assegna ogni anno il Premio Cipputi e anche il Cipputi alla carriera, consegnato finora a Ken Loach, Ugo Gregoretti, e per il 2000 a Carlo Lizzani. “Una tradizione che continuerà anche quest’anno, come del resto l’attenzione alla non fiction, di cui il pubblico di Torino è entusiasta, assicura il direttore Steve Della Casa.
Quali sono le caratteristiche della tradizione italiana nel campo del documentario “operaio”?
Il percorso italiano, nella sua quasi totale interezza, è stato legato all’attività dei sindacati e dei partiti della sinistra, ad esempio con l’Unitelefilm – una struttura molto vicina al Pci – che già negli anni Cinquanta aveva iniziato a lavorare su questi argomenti, a cominciare dai documentari di Paolo Gobetti a cui Torino ha dedicato una rassegna. Poi naturalmente c’è la tradizione del cinema militante che sempre Paolo Gobetti inizia con Scioperi a Torino nel ’62, un documentario con testi di Franco Fortini e la collaborazione di Goffredo Fofi.
E oggi, cosa sta succedendo?
Ultimamente, sul binomio documentario e lavoro sono tornati spesso autori come Daniele Segre, ma anche Mimmo Calopresti ha fatto delle cose in questa direzione negli anni Ottanta. Tra i giovani, i nomi più forti sono quelli di Guido Chiesa e Daniele Vicari. Il tema sta diventando di maggiore attualità, perché con la rivoluzione informatica il mondo del lavoro si è talmente modificato da stimolare la curiosità di registi e produttori che girano documentari, ma anche di chi i documentari li finanzia, come la Rai o le pay-tv.
Nel resto d’Europa si è affermato in questi anni un “nuovo cinema operaio”, con film come “Risorse umane”, che ha vinto a Torino, o “Selon Matthieu”, che quest’anno era a Venezia. E in Italia?
Una tradizione di cinema operaio c’era anche qui da noi, con i lavori di Ugo Gregoretti, o le commedie di ambiente metalmeccanico della Wertmüller, o i film di Elio Petri. Film drammatici sull’argomento ne ricordo pochi, ad esempio Storia d’amore, di Citto Maselli, che lanciò Valeria Golino, o Padre e figlio di Pasquale Pozzessere con Michele Placido e Stefano Dionisi. Ma il registro comico, magari con una punta di amaro, è quello dominante nel nostro cinema. Che adesso, però, non mi sembra che abbia tanta voglia di pensare alla fabbrica.
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