Stefano Cucchi, morire di carcere


“Quella di Stefano Cucchi è stata una via crucis di 12 stazioni, tante persone sono venute in contatto con questo giovane, ma nessuno di loro ha mostrato pietà e comprensione, nessuno l’ha soccorso, nessuno ha denunciato l’ingiustizia che stava subendo”. Con queste dure parole Luigi Manconi, presidente dell’associazione ‘A Buon Diritto’, denuncia nel documentario 148 Stefano mostri dell’inerzia firmato da Maurizio Cartolano, evento speciale del Festival di Roma, la drammatica vicenda del 31enne romano.

Stefano Cucchi muore, in circostanze ancora da chiarire, sei giorni dopo il suo arresto, in un reparto dell’Ospedale Sandro Pertini di Roma. Evidenti sono invece i segni di ecchimosi sul corpo e sulla faccia, oltre ad alcune fratture riscontrate, una storia di percosse subite simile a quella accaduta al 18enne Federico Aldrovandi – raccontata nel documentario di Filippo Vendemmiati E’ stato morto un ragazzo – e a Giuseppe Uva, entrambi morti dopo aver transitato in caserme dei carabinieri o altre strutture detentive. In quell’ottobre, Stefano è la 148° morte avvenuta nei penitenziari italiani, e il bilancio conclusivo dell’anno 2009 tocca le 177 vittime, per lo più giovani.

A oltre due anni dalla morte di Cucchi,il giornalista romano Giancarlo Castelli, ideatore del documentario, definisce la vicenda “un’odissea, un caso di omertà di Stato, in cui tre istituzioni (carabinieri, amministrazione penitenziaria e sanità pubblica) non hanno ammesso niente. Stefano è morto, ma non è mai stato chiarito come. E’ morto per bradicardia, per un cuore che rallenta, ma perché questo cuore rallenta ancora nessuno ce lo spiega”.

 

A ricostruire la vicenda vissuta da Stefano in quei giorni e a darci un ritratto della sua fragilità, nascosta da un’apparente spavalderia, senza nascondere la sua dipendenza dalla droga, sono il padre e la sorella Ilaria che chiedono non vendetta, ma verità e giustizia. Ricercano dalle autorità competenti risposte chiare a domande semplici: che cosa è accaduto a Stefano? Chi sono i responsabili di quanto successo? Perché durante la sua detenzione i familiari non hanno avuto notizie di lui?

Il regista definisce il suo lavoro un “documentario ad argomento sociale che unisce elementi di linguaggio visivo tradizionale ad altri non convenzionali”. Ed ecco che ascoltiamo la voce di Stefano durante l’udienza in Tribunale e brani delle sue lettere letti da Claudio Santamaria, e vediamo le immagini dei filmini familiari, e in chiusura arriva la canzone “Fermi con le mani ” di Fabrizio Moro.

Il padre, percorrendo le strade del quartiere Tor Pignattara dove abitano, ricorda l’ultimo giorno in cui vede il figlio, con il viso gonfio, il 16 ottobre durante l’udienza in Tribunale. Poi passano cinque incredibili giornate durante le quali i familiari, tra incomprensibili burocrazie, invano chiedono notizie di Stefano o di poterlo incontrare per pochi minuti. L’unica risposta arriva a casa il 22 ottobre, quando un carabiniere notifica alla famiglia di nominare un perito di parte per l’autopsia del giovane.

L’avvocato, già difensore della famiglia Aldrovandi, sottolinea come, al di là di una serie di fondamentali diritti civili negati al giovane in quel momento detenuto, lo Stato ha prima di tutto negato il diritto alla vita. E ad aiutarci a ricostruite il contesto in cui matura la fine di Stefano sono alcuni giornalisti di Liberazione, il manifesto e il Fatto Quotidiano, che ha coprodotto il documentario, insieme a Ambra Group, e che lo distribuirà con il giornale. In attesa che il doc venga programmato dal servizio pubblico televisivo come richiedono Articolo 21 e la sezione italiana di Amnesty International, che hanno dato il loro patrocinio al film.

Tra coloro che non hanno accettato di fornire la loro testimonianza, benché sollecitati come si legge nei titoli di coda, l’Arma dei Carabinieri e alcuni responsabili dell’Ospedale Pertini.

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01 Novembre 2011

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