“Mentre scorrevo la lista delle personalità illustri che hanno ricevuto la cittadinanza onoraria di Roma prima di me, da Manzoni a Rita Levi Montalcini, da Pertini a Roosevelt, mi è venuto in mente il titolo di un libro di Chatwin che non ho letto: Che ci faccio qui?”. Scherza Paolo Sorrentino, in Campidoglio per ricevere dalle mani del sindaco Ignazio Marino la pergamena e la lupa capitolina in bronzo, simbolo della Città eterna. Da oggi è romano de Roma di dirittto, dopo aver cantato la città – e le sue contraddizioni – nel suo film premio Oscar La grande bellezza. “Sono felice ma intontito – ha proseguito il regista, nell’affollata Sala Giulio Cesare del Campidoglio – ringrazio i consiglieri che hanno dissentito, anch’io avrei fatto come loro, ma ringrazio anche il sindaco e i consiglieri che hanno acconsentito, hanno sbagliato e li ringrazio per questo. Sbagliando si insegna, come diceva Carmelo Bene. Noi tutti siamo fatti di imperfezione e di errori e questo volevo dire con il mio film, perché è proprio nello sbaglio che si annida il meraviglioso, nel disagio di essere vivi che l’arte dovrebbe sempre stanare”.
Poi ha proseguito rievocando tante immagini viste a Roma, che non sono nel film ma ne compongono l’ispirazione: “Qui ho visto una turista coperta di tatuaggi addormentarsi sulle scale del Campidoglio stremata, un hare krisna che chiedeva al telefono ‘parlo col tempio?’, una soubrette settantenne che voleva una sedia perché le facevano male gli stivaletti con le borchie, qui ho scambiato Gina Lollobrigida per Silvana Pampanini, lei ha fatto finta di niente ma non mi ha più rivolto la parola per tutta la serata. A Cinecittà ho incontrato Alberto Sordi qualche mese prima che morisse che fissava il vuoto con gli occhi liquidi. Flaiano diceva che vivere a Roma è perdere la vita, ma perdere la vita a Roma è una bellissima forma di congedo”.
È toccato a Carlo Verdone pronunciare un encomio commosso del “suo regista”, di fronte a una platea dove molti erano i complici di Sorrentino, dai produttori Francesca Cima e Nicola Giuliano allo sceneggiatore Umberto Contarello. Per Verdone “i film di Paolo in poco più di un decennio hanno conquistato il mondo, è l’ultimo di una lunga serie di registi e intellettuali non romani che hanno saputo raccontare talvolta meglio dei romani stessi questa città. Tra loro Fellini e Bertolucci, Pasolini e Virzì… Si è detto che La grande bellezza racconta la Roma del degrado, serva del cattivo gusto, al contrario credo che Paolo abbia affondato lo sguardo in una città dove non esistono solo buche, parcheggi abusivi e traffico, ma aurore di porcellana, marmi splendenti lungo il Tevere, giardini segreti… Ciò che è destinato a rimanere di una città destinata a una continua agonia e rinascita, come diceva Fellini. Con questo affresco Paolo ci ha ricordato che Roma è in grado di resistere al degrado e dimostrarsi superiore. Ci ha trasmesso la devozione e lo stupore che non ricordavamo da anni e per questo oggi diventa illustre cittadino di Roma”.
Infine Ignazio Marino, che ha voluto inviare un saluto al ministro Dario Franceschini (“avrebbe voluto essere qui con noi”), ha parlato del film come di un “monumento al magnetismo della nostra città che diventa scenario della solitudine e smarrimento dell’uomo moderno. Il film ci sollecita ad agire e tentare di liberarla dalle bruttezze. Roma ha bisogno di tanta cura e la medicina migliore è la cultura”. In particolare ha ricordato il dato preoccupante della chiusura delle sale di quartiere, aggiungendo: “Stiamo vigilando sulla tutela della destinazione d’uso delle sale”. Infine un cenno a Cinecittà, che “dopo il Colosseo e la Fontana di Trevi è il nostro luogo più conosciuto nel mondo e che dobbiamo rilanciare”.
Il regista australiano, è noto per il suo debutto nel lungometraggio con il musical 'The Greatest Showman'
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