Sidney Lumet: faccio il tragico ma vorrei essere come Fellini


Si presenta simpatico e affabile, e alla domanda “Quale film di Federico Fellini le sarebbe piaciuto dirigere?” risponde prontamente “Tutti!”
È davvero un fan dell’autore de La dolce vita il regista Sidney Lumet, giunto a Rimini per ricevere il premio Fellini 2009, consegnato in occasione del convegno La sceneggiaura all’italiana: Fellini, Pinelli e gli altri.

Poi riflette e argomenta entusiasta: “Il mio preferito è Amarcord, e adoro il Satyricon, mentre 8 ½, man mano che invecchio, non mi sembra più il ‘gigante’ che mi parve al tempo. Ma qui stiamo parlando della differenza che passa tra ‘grande’ e ‘magnifico’”.
Questa sua dichiarata ammirazione è uno dei motivi che ha spinto la fondazione Fellini ad assegnare a lui il premio 2009, ma prima di tutto c’è la sua immensa carriera: oltre 50 film di tutti i generi con particolare predilezione per il “Court room drama”, il film di genere giudiziario, di cui è l’indiscusso maestro a partire dal classico La parola ai giurati.

Mario Sesti, moderatore del convegno e primo interlocutore della conferenza stampa che vede protagonista il regista americano, apre le danze con una domanda ironica e provocatoria, che scatena un sentito applauso: “Lo sa che in Italia ci sono un sacco di magistrati comunisti? Il mio sogno sarebbe che lei dirigesse un film sul nostro paese.”
Lumet nicchia, ma apprezza: “Non saprei. Non vorrei finire per rifare La parola ai giurati. E poi è un sacco di tempo che non vedo un film italiano. Prima in USA c’era molto spazio per il cinema europeo. Nella 49ma strada c’era una sala che proiettava solo film italiani. Ora non più. Dominano i multisala e il valore immobiliare è salito alle stelle, per cui i piccoli esercenti non ce la fanno ad andare avanti con la sola vendita dei biglietti”.

Si rifiuta, per scaramanzia, di parlare del film su cui sta lavorando, e anche del caso Polanski, premio Fellini 2007. A chi lo incalza sull’argomento dice: “Non credo che la mia opinione sia così importante. Anche se ne parlasse l’uomo più saggio del mondo sarebbe solo gossip. Io so solo che Roman è un regista fantastico.”

Risponde invece volentieri alle domande sul cinema di Fellini, sottolineando ancora, nel caso ce ne fosse bisogno, il suo apprezzamento nei confronti del collega riminese: “Davvero mi piacerebbe avere qualcosa in comune con lui. Io faccio film tragici, difficili, pesanti. La cosa che mi è sempre piaciuta di Federico è il senso dell’umorismo, attraverso il quale raggiunge davvero la profondità degli esseri umani. I suoi film sono come una passeggiata sulla spiaggia.”
E coglie l’occasione per ricordare il finale metacinematografico di E la nave va.

Quando gli si chiede del suo rapporto con la drammaturgia americana – con riferimento alle sue trasposizioni cinematografiche di Tennessee Williams e Arthur Miller -ricorda volentieri i suoi inizi come attore di teatro. “Ma non ero certo un Adone, così sono passato dietro le quinte.”
E dell’interpretazione di Anna Magnani in Pelle di Serpente, versione Lumet di un’opera di Williams, dice: “lei lo ha sempre negato, ma credo che fosse in difficoltà a dover lavorare in inglese. Si sentiva molto responsabilizzata, e in più aveva a fianco Marlon Brando, che stava per diventare una star. Si azzuffavano spesso, non erano certo due caratteri facili, ma lei era una donna molto forte e spero che si sia divertita. Alla fine, ciò che conta è il risultato su schermo.”

 

Dal teatro Lumet ha ereditato anche il metodo: “Organizzavo delle prove con gli attori per due settimane prima delle riprese, mettevamo in scena di fila le sequenze del film. E volevo che ci fossero gli sceneggiatori, al contrario di altri, perché io penso che la script sia sacro e vada rispettato. Va invece controllata la libertà dell’attore”.

L’intelligenza di Lumet emerge anche dalla capacità di ammettere “non lo so” al momento giusto. Quando gli si chiede se l’elezione di Obama abbia davvero cambiato gli Stati Uniti, facendo magari piazza pulita di molti dei problemi politici affrontati in passato dal regista, risponde: “è una grande persona, ma ha tutti contro, persino il suo partito. È troppo presto per rispondere a questa domanda.”

C’è ancora spazio per tanti argomenti: del digitale dice “lo adoro sempre di più”, mentre definisce scherzando il rapporto coi produttori “quasi impossibile. Ma in realtà sono grato a chi mi dà i soldi per realizzare un film. L’importante è garantirsi legalmente la decisione finale sul montaggio.”
Acuta anche la sua osservazione circa l’influenza dei film nella formazione dei giovani: “È importantissima. Fondamentale. Ma dura un minuto!”

E chiude la conferenza con un aneddoto, per spiegare come vive il rapporto con i suoi attori: “non frequento molto gli interpreti con cui ho lavorato. Il fatto è che mi espongo talmente tanto – e loro fanno lo stesso con me – che quando abbiamo finito il film è come aver vissuto una storia d’amore che si è bruciata in fretta. Ma restiamo legati per sempre. Pensate che una volta ho incontrato Katharine Hepburn dopo dieci anni che non ci vedevamo e lei mi ha fatto una domanda che riprendeva esattamente il discorso dall’ultima volta che ci eravamo parlati !”

 

Al termine del convegno, che ha visto nella giornata del 7 novembre gli interventi di Valerio Caprara, Ernesto G. Laura, Gianfranco Zanotti, Maurizio Giammusso, Vincenzo Cerami, Gian Piero Brunetta e la spontanea e divertente testimonianza dello sceneggiatore felliniano Tonino Guerra, il presidente della Fondazione Fellini Pupi Avati consegna a Lumet il premio 2009. “Onora il padre e la madre è un film di una eccezionale modernità – ha dichiarato Avati – dunque consegno questo premio a Lumet non tanto per il suo glorioso passato, ma per quello che sta facendo ora e per quello che farà, in quanto regista del presente.”

autore
07 Novembre 2009

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