SIC@SIC e la ricerca di Dio

Tra i corti della selezione SIC@SIC la bellissima opera in stopo motion 'Playing God' e l'interessante 'Sans Dieu'

Playing God

C’è chi gioca a fare Dio e chi lo cerca.

La religiosità è un tema che accomuna due corti presentati a Venezia nella selezione SIC@SIC, nata dalla collaborazione tra il Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani (SNCCI) e Cinecittà.

Si tratta di Playing God di Matteo Burani (regia) e Arianna Gheller (animazione) e di Sans Dieu di Alessandro Rocca, che sebbene utilizzino linguaggi e tecniche totalmente differenti tra loro convergono nella comune esigenza di rapportarsi a temi di natura spirituale, creazionistici in un caso, sentimentali ed emozionali nell’altro.

Partiamo dal primo, realizzato in un eccelso stop motion in cui letteralmente i creatori creano esseri umani dall’argilla, proprio come nel Mito. Una scultura prende vita, all’inizio è informe, poi piano piano acquisisce tratti definiti attraverso un processo che sfiora il “body horror”, e si trova circondata da figure misteriose, mostruose e inquietanti.

“Il tema della creazione – dice Burani – si presta particolarmente a questa tecnica, perché in effetti hai l’impressione di intervenire sulla vita”.

Un precedente, ad esempio, potrebbe essere Mad God di Phil Tippett.

“Lo conosco – dice il regista – è un guro degli effetti speciali. Ma non ho visto quel film per intero. Piuttosto mi hanno influenzato i lavori di Jan Švankmajer e in particolare Možnosti dialogu. Volevo rappresentare il sovrabbondare di creazione e arte che mi sono spesso trovato ad affrontare svolgendo questo lavoro. Il body horror c’è, è una componente, ma io lo definirei più “grottesco”. Ci sono delle sfumature ironiche, c’è il dramma, e anche la musica non si muove in maniera spaventosa, anzi, sottolinea questa particolare miscela di emozioni”.

Calcolando le difficoltà tecniche di questo tipo di produzione, il processo produttivo è stato piuttosto complicato.

“Un’odissea – racconta ancora l’autore – siamo partiti nel 2017, con l’idea iniziale di un corto assai più breve, un minuto, uno e mezzo al massimo, che non avesse capo né cosa ma fosse solo un esercizio di stile. Poi le cose sono cambiate, è arrivata una sceneggiatura e più cose da sperimentare. Stava diventando un autentico mondo fantastico con tanto di character design, abbiamo scoperto tante complicazioni ma anche la possibilità di spingere al massimo l’espressività, proprio grazie alla scultura. Abbiamo cercato di capire come inserire una parte live action… il problema era sempre come rendere il tutto sostenibile, è stato un progetto nel cassetto che abbiamo tenuto per anni costruendolo veramente giorno per giorno. Volevamo che fosse un’autentica figata!”

E ci sono riusciti, viene da dire.

Così come è riuscito il corto di Rocca, che sotto una patina più rassicurante nasconde tematiche traumatiche e tortuose.

I due bambini Gabriel e Xavier trascorrono i pomeriggi giocando e vagando per campagne e luoghi abbandonati. Ma un sentimento tormenta Gabriel: è amore o religione?

“Il corto – dice l’autore – nasce dalla mia necessità di esorcizzare traumi e ricordi negativi. Nell’anima di tutti noi ci sono cassetti, che vanno aperti prima che il contenuto possa contaminare il resto. Dargli una forma, scrivendo, girando, producendo, li si trasforma in qualcosa di esterno, visibile, udibile, che non fa più male. Parlo della linea sottile tra amore e religione, laddove per amore intendo un rapporto sano, bilaterale, dove esiste il rispetto, la premura”.

Ma perché scegliere proprio la religione cristiana?

“Il concetto di religione per me è universale. Ho scelto quella cristiana solo perché in Occidente è la più conosciuta. Quello che conta è che il sentimento non sfoci in qualcosa di tossico e monolaterale, che diventi ossessione, morbosità, dipendenza affettiva. E’ un sistema di simboli che mi affascina”.

La prova è retta meravigliosamente dai bimbi protagonisti: “Sono stati un regalo – dice ancora Rocca – esprimevano innocenza, purezza, qualcosa di molto raro che hanno portato. E’ stato l’inverso del processo creativo che di solito uso con l’attore adulto. Non c’era il problema del rapporto tra attore e personaggio. Senza volerlo ho scritto dei personaggi che erano molto simili a loro, è stato uno scambio naturale”.

Emblematica la scena finale, con un ragno che divora una mosca: “La scena mi si è palesata davanti girando per casolari abbandonati e la mia montatrice e produttrice Giulia Grandinetti ha subito individuato in essa il finale del film. C’è un simbolo eucaristico, il ricevere qualcosa da mangiare. Un contraltare negativo alla scena dell’ostia. Ma il ragno in psicologia rappresenta spesso l’amore tossico, qualcuno che tesse una tela per intrappolarti. Un bambino che non ha strumenti per comprendere alcuni sentimenti, se lasciato ‘senza dio’, appunto, senza qualcuno che lo accompagni, può facilmente compiere scelte che lo portino al male”.

 

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28 Agosto 2024

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