CANNES – Anche il cinema sembra passare in secondo piano quando, a pochi giorni dall’intervento di Volodymyr Zelensky durante la serata di apertura del Festival di Cannes, ci si trova davanti all’unico regista russo in concorso, Kirill Serebrennikov, che torna sulla Croisette dopo essere stato imprigionato e processato come dissidente dal regime di Putin. Che il suo ultimo film, Tchaikovsky’s Wife, venga oscurato dalle vicende geopolitiche è necessario ma, al tempo stesso, un gran peccato.
La visione cinematografica di Serebrennikov, infatti, si conferma solida e consapevole anche nell’approcciare una sfida ardua come quella di un film in costume che racconta la figura di un personaggio artistico cruciale, intrecciando tematiche spinose, come il dogmatismo religioso, la sanità mentale, l’omosessualità e l’idealizzazione dell’amore.
Protagonista, come è evidente dal titolo, non è il celebre compositore russo ottocentesco (interpretato da Odin Biron), ma sua moglie. La cui psiche debole e malleabile viene dragata per tutto lo scorrere del film, facendo emergere tutte le sue pulsioni, frustrazioni e, soprattutto, ossessioni. Sì, perché quando si parla della tragica biografia di Antonina Miljukova (interpretata da Elenev Nikita) il concetto di ossessione è indubbiamente cruciale. La donna, infatti, si innamora a prima vista dell’ancora giovane compositore, convincendosi oltre ogni più legittimo dubbio che si tratti dell’uomo con cui dovrà vivere per sempre. Una convinzione tanto cieca da passare quasi per osmosi al burbero musicista, che accetta di sposarla con l’idea di scacciare le malelingue sulla sua malcelata omosessualità e, perché no, magari “guarire” da essa. Se i presupposti sembrano grotteschi, figuriamoci le loro conseguenze. La breve convivenza e lo stridente contrasto tra i sentimenti dei due coniugi porteranno a decenni di mortificazioni, rancore e dolore, con esiti inevitabilmente tragici per entrambi.
“Abbiamo girato il film poco prima dell’inizio di questa catastrofica guerra, – dichiara il regista – volevo tornare indietro nel tempo e parlare dell’ossessione di una donna che la conduce in una tragedia. Volevo fare un film su di noi, su come siamo fatti, sulla nostra sensibilità. Per questo abbiamo girato il film in ordine cronologico, che è una cosa molto rara da fare. Volevo che Elenev vivesse tutta la storia, che il suo carattere evolvesse con il personaggio per una serie di decadi, perché il cinema è una macchina del tempo”.
Serebrennikov, un po’ come accadeva nel precedente Petrov’s Flu (presentato nella scorsa edizione del Festival nonostante il regista fosse agli arresti domiciliari), usa frequenti e sapienti piani sequenza – spesso dal sapore onirico – per restituire il progressivo distaccamento dalla realtà della protagonista, che si alimenta del rifiuto categorico di accettare l’impossibilità del concretizzarsi del suo amore. Il desiderio di continuare a essere “La moglie di Tchaikovsky”, con tutte le sue implicazioni sociali, morali e anche spirituali, si scontra col desiderio sessuale di una donna dalla grande sensualità che vive e sfoga le sue pulsioni affogandole poi nel senso di colpa.
Con il ritmo lento e compassato di un romanzo russo di quel periodo storico, Tchaikovsky’s Wife offre molteplici spunti di riflessione, rivelando tutte le contraddizioni di un paese da mesi al centro del dibattito pubblico. Essere catapultati in uno dei periodi più floridi della cultura russa ci porta subito a pensare a come essa venga oggi marginalizzata o discriminata: “Capisco le persone che spingono per il boicottaggio, perché quello che accade è molto doloroso. Credo che questa fiducia nell’imperialismo, in Russia, debba fermarsi. Ma l’idea di boicottare la cultura non credo possa funzionare. La cultura è nell’aria e nelle nuvole. Non si può boicottare la letteratura, la musica e il cinema perché sono tutte cose che fanno sentire vive le persone. La cultura russa ha sempre raccontato la fragilità umana e la compassione, è sempre stata antimilitarista, perché sa che la guerra uccide le persone nelle trincee, alla guerra non interessa la vita”.
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