VENEZIA. “E’ un album pieno di fotografie, scritti, ritagli e di ricordi, qualcuno offuscato che andava ricostruito. Ma non è un film che vuole commuovere, perché Federico si sarebbe incazzato, lui che era così allegro e autoironico. E poi la nostalgia e i rimpianti non sono il mio forte”. Così Ettore Scola parla di Che strano chiamarsi Federico, omaggio all’amico Fellini a 20 anni dalla scomparsa, da un’idea di Roberto Cicutto, in sala il 12 settembre con Bim e Luce Cinecittà, e presentato Fuori Concorso.
Per la proiezione ufficiale ci sarà anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e Scola ironizza: “Come se non avesse altre cose più importanti da fare. Se anche lui perde tempo siamo fregati”.
La prima idea nasce proprio qui a Venezia ed era quella di una raccolta di repertori, ricorda il regista, un lavoro da affidare a un giovane montatore. “Poi Roberto Cicutto, che è una persona pericolosa, mi ha detto perché non lo fai tu, visto che hai conosciuto Federico”. Scritto da Ettore, Paola e Silvia Scola – prodotto da Payper Moon, Palomar, Luce Cinecittà, con Rai Cinema e Cinecittà Studios in collaborazione con Cubovision e con il contributo MiBAC-DG Cinema – il film si compone di scene scritte, ricostruite e girate a Cinecittà, di materiali di repertorio, scelti dagli archivi delle Teche Rai e dell’Archivio Luce, e di brani dei suoi film.
Scola, classe 1931, è tornato sul set dopo dieci anni di assenza, l’ultimo suo film è stato Gente di Roma: “Per i vecchi il lavoro diventa un’operazione invereconda, dopo anni di beata passione, Per fortuna il mio è un lavoro privilegiato e poi non ho fatto quasi niente: le figlie scrivevano, i nipoti interpretavano e Cicutto si occupava di tutto, anche dei caffè. Non è stato un film scomodo, ho fatto opere ben più faticose”.
Il film rievoca alcune tappe dell’amicizia con Fellini, che risale ai primi anni ’50 quando hanno come amici in comune Ruggero Maccari, Alberto Sordi e Marcello Mastroianni, le loro visite di piacere sui set dei rispettivi film e Cinecittà dove entrambi hanno lavorato.
E ancora gli anni della rivista ‘Marc’Aurelio’, settimanale trasgressivo di satira politica, dove lavoravano Steno, Marchesi e Maccari poi diventati famosi sceneggiatori. La scoperta della Roma notturna con i suoi abitanti da parte di Federico che amava girare in auto fino all’alba. E poi Fellini che parla con ironia del suo lavoro: “Faccio film perché sono costretto a restituire l’anticipo che mi è stato dato”. E chi come Sordi che nel film parla di lui come “un grande bugiardo”, perché “la bugia è la sua fantasia”, aggiunge Giulietta Masina.
Eugenio Scalfari sulla ‘Repubblica’ scrive oggi di essersi profondamente commosso anzi di aver pianto dopo una visione privata del film. “Dopo gli ottant’anni viene una debolezza lacrimale, non è vera emozione – avverte Scola – in verità Scalfari si è commosso vedendo la redazione del ‘Marc’Aurelio’ quando, a differenza di oggi, un direttore conosceva tutti i suoi collaboratori e discuteva con loro come si fanno gli articoli”.
Scola ha voluto anche sfatare alcune etichette che nel tempo sono state date di Fellini come qualunquista e maschilista. “Sua è la tenerezza che mostra verso la donna. Nessun come lui ha guardato il volto di Anita Ekberg. E penso al personaggio della Saraghina, truccata in modo trucido, eppure così dolce verso i bambini”.
Esilaranti i provini di Alberto Sordi, Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman per Il Casanova. “Non si tratta di una scoperta. Li avevo visti allora in una saletta del Cinefonico, provini inutili perché la produzione aveva già deciso che il protagonista sarebbe stato Donald Sutherland”.
L’attore che interpreta Scola da giovane, Giacomo Lazotti, ha cercato di rendere la sua flemma, anche la sua timidezza, “mentre ero diviso tra gli studi pigri e il lavoro di disegnatore e fumettista”. Già il disegno è l’altro mestiere che li ha uniti e Scola ricorda di avergli regalato, pochi giorni prima della sua scomparsa, dei pennarelli e un album da disegno.
Finale in linea con il sarcasmo di Scola con la sequenza in cui s’immagina che Fellini fugga da quella camera ardente al Teatro 5 di Cinecittà. “Solo ai grandi artisti come Dante, Leopardi, Machiavelli, e Fellini appunto, è concessa questa fuga per rifugiarsi nell’immortalità”, conclude il regista.
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