“Sandokan…Sandokan…giallo il sole la forza mi dà”. Le parole della canzone si diffondono dagli altoparlanti della televisione per la prima volta martedì 6 gennaio 1976. Ed è subito epifania! In tutti i sensi. Chi c’era davanti allo schermo non poteva sapere di essere al cospetto di un evento che avrebbe segnato la storia non solo della tv, ma del costume italiano. Non sono pochi, comunque, a poter dire “io c’ero”. Anzi. Ben 27 milioni di spettatori di ogni età ed estrazione sociale restarono incatenati con gli occhi e le orecchie allo sceneggiato tratto dai libri di Emilio Salgari e firmato Sergio Sollima, “uno dei più grandi cineasti dello spaghetti western assieme a Sergio Leone e Sergio Corbucci” secondo le parole di Quentin Tarantino.
Come in Italia anche in Germania tre anni dopo, quando i 6 episodi della durata di circa un’ora ciascuno venivano trasmessi settimanalmente, le strade si svuotavano. Letteralmente. Sandokan era oggetto preferito di conversazioni nei cortili delle scuole. Eserciti di donne sognavano ad occhi aperti l’esotico e affascinante Kabir Bedi che ne interpretava il protagonista e stregava la Perla di Labuan, interpretata dalla bellissima Carole André. Tantissimi neonati venuti alla luce dal ‘76 ai primi anni ’80 furono battezzati Sandokan.
Era forse l’ultimo atto della Rai d’un tempo e la consacrazione della formula in sei puntate che avrebbe portato al concepimento di sceneggiati amatissimi come Pinocchio e Cuore di Luigi Comencini o più avanti alla Piovra di Damiano Damiani. Il successo fu tale che dalla serie fu tratta anche una versione cinematografica in due parti, della durata di circa quattro ore. L’attore indiano Kabir Bedi (nato a Lahore nel 1946), ancora relativamente sconosciuto, divenne in seguito uno degli “esotici” più popolari in film occidentali come Il corsaro nero, Il ladro di Baghdad o nel ruolo dell’avversario di Bond, Gobinda, in Octopussy.
Eppure l’accoglienza dei critici fu spesso sprezzante, se non addirittura feroce: “Sollima non avrebbe lavorato diversamente se lo avessero spinto intenzioni parodistiche: purtroppo fa sul serio. La demagogia terzomondista è per Sollima una pessima ispiratrice. Non s’avvertono gli accenti d’una passione autentica. Si ha il sospetto dell’ossequio conformistico a una moda. E con tante banalità retoriche e anacronistiche cacciate a forza nella bella avventura piratesca, riesce soltanto a guastarci Salgari e lo spettacolo” (da La Stampa, 3 febbraio 1976, p. 1). E questo era solo uno degli esempi di invettiva che sferzarono dalle pagine dei giornali lo sceneggiato targato Rete (Rai) 1. Il pubblico se ne infischiò e continuò fino al febbraio di quello stesso anno a restare incollato davanti alla Tv.
Siamo nell’arcipelago malese intorno al 1850: l’Impero britannico vuole assicurarsi i territori della regione asiatica, colonizzarli e – ovviamente – sfruttarli. A tal fine, Sua Maestà la Regina Vittoria utilizza metodi non di rado brutali attraverso nobili “rappresentanti commerciali” che appartengono alla pseudo-militare “East India Company”. Questa a sua volta collabora con i governanti locali, spesso affamati di potere e di profitto. Il peggiore e più spregiudicato dei potentati locali è Sir James Brooke (Adolfo Celi), noto come il “Maharaja Bianco”. Brooke e l’intera società delle Indie Orientali sono da anni ai ferri corti con Sandokan (detto “La Tigre della Malesia”), un ribelle che combattente con audacia per la libertà della sua gente e che viene per questo etichettato come “pirata”. L’eroe rinnegato opera dalla sua impenetrabile base nell’isola di Mompracem per rovinare i piani agli inglesi con le sue incursioni nei mari malesi e per sostenere la popolazione locale. Lo assistono il suo intimo amico e confidente Yanez (Philippe Leroy), un portoghese intraprendente e raffinato, e solo poche decine di combattenti presi tra la gente comune.Diciamo dei partigiani della jungla.
Tutto sommato, ci sono già dei paralleli audaci con il famoso Robin di Locksley nella sua accogliente foresta di Sherwood – e se questi paralleli non fossero abbastanza, Sandokan è anche un rampollo di origine nobile la cui famiglia è stata spazzata via durante la sua infanzia. A differenza di Robin Hood, però, le azioni di Sandokan sono determinate da una componente di vendetta personale e di odio. E questo lo fa molto Conte di Montecristo. Il motivo è semplice e non sorprendente: Brooke è stato responsabile dell’assassinio dei parenti di Sandokan. Questa è la materia di cui sono fatte le epopee cariche di conflitti.
Il fatto che la trama sia stata messa insieme da tre romanzi di Salgari è abbastanza evidente: si entra nella struttura in modo brusco, si devono affrontare diversi salti temporali e poi, nel finale aperto, si ha la vaga sensazione che manchi qualcosa. Evidente l’eredità dal vecchio sceneggiato televisivo con valore pedagogico, vedi ad esempio il lungo prologo con voce fuori campo che dipinge il quadro storico reale in cui si svolgono le vicende immaginate. I personaggi sono chiaramente definiti nella loro funzione e piuttosto semplici. Raramente escono dai loro confini ben marcati. Ciononostante, tutti risultano appassionati e giusti nei loro ruoli, tanto da meritarsi un posto importante nella nostra memoria collettiva.
Naturalmente, come si addice a una trama del genere, il protagonista, pur desiderando vendetta, ha il cuore al posto giusto e un senso dell’onore ineccepibile. L’immagine del nobile selvaggio, più volte sottolineata, si impone sempre. Quasi inevitabile è la storia d’amore interculturale che trasforma la tigre in un agnello (quasi) addomesticato. Il modo in cui la linea romance viene elaborata è spesso pesante e poco credibile: oggi si sorride di fronte a un romanticismo e a un eroismo così esagerati e poco mondani. Un po’ ingenui, ma colorati e simpatici.
Eppure non mancano i colpi di genio di Sollima, come le inquadrature che sorprendono per modernità e coraggio. Uno su tutti: il magistrale primissimo piano sulla Tigre della Malesia che si arrende agli inglesi al termine del quarto episodio, avvolto nel silenzio della colonna musicale rotta solo dalle folate di vento. siamo in attesa della reazione di Sandokan in una suspence, un cliffhanger drammatico che appaiono potenti ancora oggi.
Sandokan non si sforza di raggiungere la raffinatezza e la complessità psicologica che si apprezza nelle serie televisive odierne, non mira né all’accuratezza storica né a quel “giocare con le aspettative” che nel frattempo è diventato esso stesso un cliché. Al contrario, Sollima racconta con sorprendente onestà, regalando 6 ore di polposo e colorato intrattenimento le cui sfumature più serie – la tolleranza e il rispetto per le culture “straniere”, la critica al colonialismo e la propagazione di una vita “semplice” – non mettono mai in ombra la nuda allegria della storia del pirata, in gran parte innocente.
In fondo, Sandokan era già un anacronismo negli anni Settanta – il decennio della guerra del Vietnam, che forse all’epoca non si ricordava abbastanza – una memoria di tempi in cui il bene e il male erano ancora nettamente separati, i ragazzi sognavano una vita a bordo di una nave pirata e le ragazze una tigre dall’aspetto umano.
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