Punta lo sguardo a una nuova generazione Salvatore Piscicelli. In Quartetto – in sala da venerdì 30 novembre – sono le figlie. Passaggio sottolineato dalla presenza di Ida Di Benedetto, sua attrice-feticcio, che appunto è una madre, malata di cancro al seno. “Non volevo raccontare le nuove generazioni”, puntualizza il regista. “Ho viaggiato con le ragazze adottando il punto di vista dei padri e delle madri. Non è mio compito fare della sociologia. Proprio perché abbiamo vissuto di troppe illusioni, e abbiamo consegnato ai più giovani un mondo peggiore di quello che immaginavamo, nell’accostarsi a loro ci vuole modestia”.
Le protagoniste di Quartetto sono piuttosto disperate. Non sono le ragazze aggressive e vincenti che compaiono sui media. Come mai?
Disperate? Si, da un certo punto di vista. Non possono non esserlo. Si trovano in un mondo confuso, con identità incerte. I genitori, sia i padri che le madri, sono rimasti piuttosto infantili, dei Peter Pan che non hanno rinunciato a stili di vita giovanili. Quasi dei concorrenti. Le trovo invece molto autonome, diversamente dalle madri. Difendono la loro autonomia con una determinazione sorprendente. L’indipendenza delle donne di questa generazione nuova è quello che mi colpisce di più.
Il finale amaro non mette un’ipoteca pesante sulle novità che lei racconta?
E’ vero: Angelica, la ragazza con la telecamera, compie un gesto estremo. Ma a suo modo fa un atto di fede. Prepara la telecamera perché inquadri la scena, vuole portare a termine comunque il suo film. E le altre proseguono nei loro progetti, fanno scelte, si spostano.
Non c’è un personaggio maschile decente, nel film. Dai più giovani a più vecchi, sono tutti dei mostri. E’ una scelta?
Può sembrare, lo capisco. E’ che sono veramente convinto che il mondo dovrebbe essere in mano alle donne. Gli uomini hanno diviso la mente e l’anima, l’anima e il corpo, e si vede. Aspiro al matriarcato.
Girare con telecamere leggere, ispirandosi ai criteri del “dogma” ha favorito l’improvvisazione?
Volevo rompere la prospettiva centrale della macchina del cinema, portare l’occhio dello spettatore dentro la situazione. Anche nello scrivere non ho seguito una drammaturgia tradizionale, ma ho cercato piuttosto le rime interne dei personaggi. Quindi dovrei dire che non c’è stata improvvisazione. Però sicuramente il modo di girare ha reso più fluidi i dialoghi, ha messo in discussione la rigidità delle battute, in parte modificate.
L’uso di mezzi leggeri ha semplificato la preparazione del film? I costi sono diminuiti?
Ho puntato a una preparazione molto lunga: la sceneggiatura, le attrici, i luoghi. Poi ho girato molto velocemente, proprio per abolire la pesantezza della macchina da presa. Ci sono volute poco più di quattro settimane di riprese. Mi sembrava indispensabile per raggiungere l’intensità che il mezzo leggero mi faceva sperare. I costi sono decisamente inferiori, almeno un 40%. Considero l’esperimento riuscito, forse tra quindici anni tutti gireremo in digitale.
Di che cosa è più contento?
Del modo in cui è girato il film. Puntavo a far reagire il genere, Quartetto è un melodramma con spunti di commedia, e un tecnica d ripresa che punta all’iperrealismo, alla spontaneità. Del “dogma” ho ripreso la provocazione. Siamo in molti a essere stufi del cinema ridotto alle belle inquadrature. Ho raccolto lo spunto rosselliniano, la ricerca della trasparenza dello sguardo rivolto direttamente sul corpo dell’attore.
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