Roy Andersson: “Ammiro la sincerità di Ladri di biciclette”

Roy Andersson torna in Concorso alla Mostra dopo cinque anni, con Sull’infinito (Om Det Oändliga)


Roy Andersson dalla Svezia torna alla Mostra e all’incontro stampa ufficiale si impegna per alzarsi in piedi qualche istante per la platea dei giornalisti: entrato sulla sedia a rotelle, il regista ci tiene a fare lo sforzo di omaggiare la stampa, in un luogo in cui rinnova la presenza dopo il Leone d’Oro per Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza (2014), a cui segue Sull’infinitizza (Om Det Oändliga), sesto film dell’autore, in Concorso.

Un’opera dalle cromie celeste polvere, non una visione cinematografica in senso strettamente tradizionale ma più una “galleria di quadri” (circa una trentina), in cui Andersson opta per pochissimo dialogo e un punto di vista esterno narrante, che ripete, come un mantra, “ho visto un/una uomo/donna che…”, frase che in poche parole descrive quasi sempre la scena presentata, che s’alterna tra l’assolutamente normale e il surreale, fino alla citazione storica. Tra “i quadri”, uno in cui un uomo sta per andare a letto e la voce racconta che “ho visto un uomo che…” non crede nelle banche e quindi tiene i propri soldi nel materasso; ancora, una donna scende da un treno e si guarda intorno, un po’ desolata, e “ho visto una donna che…” immaginava qualcuno la aspettasse, finché non arriva un signore ad abbracciarla; non da ultimo due sequenze con riferimento storico, in particolare una dedicata a Hitler, per cui “ho visto un uomo che…” credeva di poter conquistare il mondo ma così non è finita. 

“Sono molto grato di essere nato vulnerabile!”, dice subito Roy Andersson, riferendosi al contenuto del suo racconto. “Credo sia qualcosa che tocchi noi esseri umani, è un dono (la vulnerabilità): la vita è più ricca quando si capisce e si vede come si comportano gli altri. Quando vediamo che sono felici o infelici è una ricchezza. Se non ci fosse crudeltà sarebbe bello, ma è impossibile: è arricchente il fatto che ci siano tutte le variabili, tanto la vulnerabilità quanto l’autostima di contro. Un film che ammiro molto è di Vittorio De Sica, Ladri di biciclette, molto molto triste ma molto bello, perché è vero, molto molto reale, e dovremmo essere sempre tutti molto sinceri. Le migliori opere d’arte sono opere che apportano compassione e sincerità”. 

Per la grande carrellata che Andersson fa tra normalità, ironia, fragilità, e con prospettive differenti e una perenne attenzione all’estetica, non si può sottrarsi alla facile connessione con il dipinto d’arte, possibile grazie anche ad una fotografia molto specifica, del dop Gergely Pelos, con cui il regista ha optato per perenni toni color della polvere e cerulei, evocativi delle cromie nordiche: “Io evito l’ombra, a me piacciono le immagini in cui le persone non si possono nascondere, che ci sia quindi questa luce che non perdona. Ci siamo ispirati a Edward Hopper, uno dei pittori americani più importanti, ogni dipinto è molto personale e lui lo è, per come le rende”, ha spiegato Andersson, che non fa riferimento esplicito ad un’immagine specifica che invece ricorre nel film, e che sembra proprio una palese citazione di un altro pittore, Marc Chagall, e dei suoi celebri sposi.

Andersson per Sull’infinitezza ha scelto di lavorare con una squadra che è quasi famiglia, sia nella produzione che con gli attori. Tatiana Delaunay, che in italiano racconta come entra nei mondi e nei personaggi laconici del regista: “è stato molto speciale lavorare con lui, un regista di delicatezza. Fare una parte per lui è un lavoro di essenza e precisione, i suoi film aspirano alla verità e quindi i personaggi sono archetipi, vanno al cuore di ciò che rappresentano, una coppia, un uomo, una donna. Va molto nel particolare, non è quindi un lavoro di preparazione ma un lavoro su un’essenza”. Anders Hellström racconta di aver lavorato “sul film per tre anni e mezzo, ma recitato due giorni! Facciamo sempre molte prove prima della scena, quindi s’impara pian piano a non recitare: la prima volta che ho recitato davanti a Roy avevo 19 anni! E Tatiana la stessa età quando fece per lui un provino. Roy ha la tendenza a ripetere le cose, quindi anche noi due siamo tornati”. 

Un film secondo gli schemi della visione personalissima del regista svedese, un film che potrebbe essere interpretato come nicchiante o comunque complesso per una lettura da pubblico pop, cosa puntualizzata nel suo contrario da uno dei produttori, Philippe Bober: “Credo non ci sia nessun regista che lavori così e sappia lavorare così. La maggior parte delle scene sono state girate in studio, con l’utilizzo del trompe-l’œil per esempio: alla fine vediamo questo universo per cui il pubblico aumenta ad ogni film di Roy, credo sia per l’unicità nella forma e nel contenuto delle sue opere. È difficile descrivere un suo film, i giornalisti lo sanno, perché non abbiamo una storia, ma più linee, e tutte le scene messe insieme, pur essendo ciascuna un dipinto a se stante, poi creano l’opera”. Infatti, “Roy ha un mondo incredibile che appare semplice ma è difficile da realizzare, cerca di visualizzare le sue idee, ci mette anni, è un lavoro di grandissima precisione, per produzioni che di solito impiegano quattro anni. Per me la sua visione della vita è sempre molto importante: il fatto che si presenti agli spettatori la sua visione del mondo credo sia qualcosa di molto bello”, dice la produttrice, Pernilla Sandström.“Credo si tratti anche di rispettare le sue idee, lui ci parla sempre delle sue idee, anche per dieci anni, prima di iniziare a lavorare. Anche per scene molto semplici lui ci vuole sempre fare una minuziosa descrizione, e ancora dopo tanti anni cerca di catturare davvero quello che lui vuole dire”, precisa l’altro co-produttore, Johan Carlsson

03 Settembre 2019

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