VENEZIA – Gian Luigi Rondi, vita, cinema, passione di Giorgio Treves, al Lido per la sezione Venezia Classici, è un documentario risultato di oltre 10 giorni di confessioni, ricordi e rivelazioni di uno dei vati della critica italiana. Attraverso i suoi racconti e con il contributo di testimoni come Gilles Jacob, Carlo Lizzani, Ettore Scola, Francesco Rosi, Paolo e Vittorio Taviani, Pupi Avati, Gina Lollobrigida e grazie a rari materiali dell’archivio di Istituto Luce – Cinecittà, emerge una visione di Rondi inedita e inserita nel contesto storico e politico dell’Italia dagli anni ’40 a oggi.
“Mi sono tolto qualche sassolino dalla scarpa – dice Rondi – dai miei colleghi sono sempre stato considerato un critico di destra, perché scrivevo per ‘Il Tempo’. Per cui non mi dispiace aver avuto l’occasione di ricordare cosa abbia significato per me essere un cattolico comunista sotto la resistenza e aver fatto il partigiano sotto insegne, e aver continuato a essere comunista e poi democristiano, con Andreotti che mi guardava male. Mi chiedono perché non l’ho raccontato prima. Semplicemente, perché per me la vita partigiana è una cosa molto seria e non voglio usarla come un ombrello per ripararmi dagli attacchi. Come dice giustamente Masolino D’Amico, intervistato da Treves, a quei tempo non potevi rivelarti ma dovevi seguire la linea del giornale. Significava doversene andare, e non avrei trovato lavoro da nessun’altra parte. Lo racconto anche nel film. Sono nato nel dicembre 1921 e sono contento di non essermi confuso con l’orribile ’22 della Marcia su Roma”.
“Il film è stato girato in gran parte nella redazione della trasmissione radiofonica Hollywood Party – spiega il regista Treves – con il contributo prezioso del conduttore Steve Della Casa. I film che parlano della vita di un critico si contano sulla punta delle dita di una mano, ma avere in Italia una figura come quella di Rondi (per i francesi può essere un Gilles Jacob) è un privilegio che va sfruttato. Mara Blasetti, la figlia di Alessandro, dice giustamente che ha fatto moltissimo per il cinema da dietro le quinte, e io ho voluto riportarlo sullo schermo. Chiaramente il rapporto con Rondi nasce prima che sullo schermo e nell’arco di 10 giorni abbiamo tirato giù circa 20 ore di conversazione. Alcune domande sono rimaste nel cassetto. Potrei farci almeno altri due film altrettanto ricchi e coinvolgenti”.
“Ero lievemente perplesso – continua il critico – di fronte all’idea di un ‘biopic’ su di me, e non mi sento il protagonista assoluto. Ma le domande sono state tutte pertinenti, intelligenti, astute. Ho visto il modo in cui operavano nella trasmissione, hanno creato una puntata speciale con me come ospite d’onore, e ho capito che poteva essere interessante anche per il pubblico. E’ stato un ‘ADR’, come si dice nei commissariati, ‘a domanda risponde’. Ho lasciato il regista libero e non ho chiesto omissioni”.
Diplomaticamente Rondi affronta una domanda ‘scomoda’ sulla Legge Corona del ’65, che imponeva l’italianità della lingua, del regista, della maggioranza degli sceneggiatori, dei due terzi degli attori principali e dei tre quarti degli attori secondari, oltre ai tre quarti dei restanti elementi artistici e tecnici perché un film potesse ottenere il riconoscimento della nazionalità. Fino a quel momento, in base alla cosidetta ‘legge Andreotti’ numero 48 del 26 luglio 1949,per ottenere il riconoscimento della nazionalità, senza il quale il film non può adire ai benefici previsti, era sufficiente che il lungometraggio fosse ‘in versione originale italiana o in più versioni, delle quali una italiana’ e tratto da un soggetto filmato o adattato da un autore italiano; inoltre gli elementi tecnico-artistici dovevano essere in larga maggioranza italiani. Ciò significava che un film girato in inglese (o altra lingua straniera) con una troupe composta per poco più della metà di artisti e tecnici italiani poteva avere la nazionalità. “Non parlo male di una persona che non c’è più – dice Rondi, che alla Legge Andreotti aveva lavorato – ma effettivamente quelle disposizioni distrussero tutto quello che avevamo costruito, e lo fecero per facilitare certi gruppi di potere e per accontentare gli americani, che fino a quel momento erano obbligati a tenere i loro incassi nel nostro paese e a usarli per produrre altri film. Corona era una cara persona, ma la sua legge ha rovinato tutto quello che avevamo cercato di costruire. Non fatemi dire di più”.
Scherzosamente, nel film, Paolo e Vittorio Taviani commentano la longevità naturale e professionale del critico attribuendogli connotati luciferini, ma qual è il vero segreto di una così lunga durata? “Ho sempre cercato di raggiungere gli obiettivi che mi ero prefissato – dice lui – come direttore di Venezia, come presidente della Biennale, del Festival di Taorimina, come direttore artistico del Festival di Spoleto… avevo queste opportunità che mi venivano proposte, ho cercato di ascoltare tutti e qualche volta ho uniformato l’azione. Il che ha creato attorno a me delle simpatie che mi hanno permesso di durare. Oggi sono speranzoso perché anche se in passato abbiamo avuto registi, attori e produttori improvvisati ora vedo la situazione nettamente migliorata, ognuno è competente nella sua disciplina”.
Le ultime parole della conferenza sono della produttrice Laurentina Guidotti: “Ho un percorso anomalo, dal Centro Sperimentale ai primi lungometraggi nel 2005 ho iniziato a dedicarmi alla fiction, entrando in un meccanismo routinario che in qualche modo limita il processo creativo di un produttore. Grazie alla proposta di Treves ho riscoperto la mia cinefilia. E poi, un po’ sadicamente, ho voluto sottoporre un critico alla critica. Fondamentale il contributo di Istituto Luce, Rai Cinema e MiBact”.
"Una pellicola schietta e a tratti brutale - si legge nella motivazione - che proietta lo spettatore in un dramma spesso ignorato: quello dei bambini soldato, derubati della propria infanzia e umanità"
"Non è assolutamente un mio pensiero che non ci si possa permettere in Italia due grandi Festival Internazionali come quelli di Venezia e di Roma. Anzi credo proprio che la moltiplicazione porti a un arricchimento. Ma è chiaro che una riflessione sulla valorizzazione e sulla diversa caratterizzazione degli appuntamenti cinematografici internazionali in Italia sia doverosa. È necessario fare sistema ed esprimere quali sono le necessità di settore al fine di valorizzare il cinema a livello internazionale"
“Non possiamo permetterci di far morire Venezia. E mi chiedo se possiamo davvero permetterci due grandi festival internazionali in Italia. Non ce l’ho con il Festival di Roma, a cui auguro ogni bene, ma una riflessione è d’obbligo”. Francesca Cima lancia la provocazione. L’occasione è il tradizionale dibattito organizzato dal Sncci alla Casa del Cinema. A metà strada tra la 71° Mostra, che si è conclusa da poche settimane, e il 9° Festival di Roma, che proprio lunedì prossimo annuncerà il suo programma all'Auditorium, gli addetti ai lavori lasciano trapelare un certo pessimismo. Stemperato solo dalla indubbia soddisfazione degli autori, da Francesco Munzi e Saverio Costanzo a Ivano De Matteo, che al Lido hanno trovato un ottimo trampolino
Una precisazione di Francesca Cima
I due registi tra i protagonisti della 71a Mostra che prenderanno parte al dibattito organizzato dai critici alla Casa del Cinema il 25 settembre