Rolf De Heer


De Heer“Domenico Procacci è il primo produttore che ha messo piede su un mio set senza innervosirmi ed è l’unico che posso chiamare tranquillamente per raccontargli: mi piacerebbe fare questo o quello, che ne dici?”. La carriera dell’australiano Rolf De Heer è legata a doppio filo all’italiana Fandango con cinque film realizzati insieme e un sesto, Ten Canoes, che ha appena vinto il Gran Premio della Giuria nella sezione “Un Certain Regard” di Cannes e che sta per uscire nelle nostre sale il 1° giugno. Abbiamo incontrato De Heer, cappello da esploratore e capelli brizzolati raccolti in una lunga coda, a Cannes, prima di questa meritata vittoria, perché Ten Canoes è sicuramente uno dei film più interessanti e originali visti in questa edizione del festival.

Come si diventa un outsider al punto da realizzare un film insieme a un intero villaggio di aborigeni, il popolo dei Raminining?
Ho iniziato dall’altra parte della barricata e Dingo nel ’91 è stata l’esperienza che mi ha cambiato. Una produzione troppo grossa per poter andare male, e invece è successo. Sprechi un anno della tua vita su un film, perdi i tuoi migliori amici e poi ti ritrovi tra le mani un cadavere commerciale. Allora ho deciso: per me fare un film è vivere, occuparmi di qualcosa che mi interessa veramente, al di là dell’esito commerciale: per esempio Epsilon è andato malissimo, è addirittura scomparso, eppure è stato qualcosa di positivo per me. Il cinema in questo modo diventa un’esplorazione, la ricerca di qualcosa di vero. I miei sono film antihollywoodiani non solo per l’argomento ma anche per come sono prodotti, per il cast e la troupe…

“Ten Canoes” è qualcosa di ancora più estremo rispetto a film come “Bad Boy Bubby” o “Alexandra’s Project” e non solo perché è il primo film realizzato in lingua “Gandalbingu”. E’ un racconto mitologico, l’immersione in una cultura totalmente altra.
È vero, qualsiasi approccio convenzionale sarebbe stato una catastrofe: per esempio non ho fatto il casting, gli “attori” sono venuti dalla comunità secondo le leggi di parentela. Con loro le prove sono addirittura dannose, perché si confondono, si perdono. Noi siamo analitici, loro sono sintetici: non recitano il ruolo degli antenati, sono gli antenati. Ignorano la macchina da presa e non ti guardano mai negli occhi, perché sarebbe maleducato. Un modo di capirsi è stare seduti uno accanto all’altro senza parlarle per dieci, venti minuti.

L’idea del film è nata da David Gulpilil, l’attore aborigeno con cui aveva lavorato in “The Tracker”, poi però David non ha avuto il permesso di venire sul set.
Sì, è una storia un po’ complicata. David ha voluto fortemente questo film e all’inizio mi ha dovuto convincere perché ero restìo, mi spaventavano le tante difficoltà anche logistiche. Poi però, quando si è deciso di partire col progetto, David si è dovuto allontare da noi a causa di problemi con la comunità: aveva infranto una legge tribale, perché aveva dormito con una donna sposata, ed è stato escluso. In compenso è la voce narrante e nel film recita suo figlio, il ventiduenne Jamie Gulpilil.

A proposito della sessualità: nel film vediamo che le donne non sono in numero sufficiente e molti uomini giovani sono costretti al celibato. Poi si leggono sui giornali storie di abusi sessuali consumati ai danni di bambini. Insomma sembra che la vita sessuale sia complicata e in certi casi drammatica.
Innanzitutto bisogna dire che gli aborigeni non sono una realtà unica, ma molte diverse comunità ciascuna con una sua storia, suoi costumi e problematiche diverse. I media tendono a esagerare e fare di ogni erba un fascio. Alcuni gruppi, ad esempio, sono dediti all’alcol e lì nascono probemi di violenze sessuali e abusi sui minori. In altri gruppi invece, specie dove l’elemento femminile è più forte, la comunità riesce a imporre delle regole di comportamento. In generale direi che il grosso problema per i maschi aborigeni è di perdita d’identità: sono un popolo di guerrieri che non possono più essere tali e questo provoca uno stress profondo, depressione e comportamenti devianti. Poi c’è un discorso culturale legato alla poligamia, perché solo gli uomini più ricchi e anziani possono sposarsi e i giovani devono aspettare. Ma di questo gli australiani bianchi non sanno nulla perché non esiste praticamente alcun rapporto tra le due culture.

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30 Maggio 2006

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