BARI – Sin dal suo esordio Roberto Faenza ha dimostrato di voler raccontare il nostro Paese con impegno civile e una certa sensibilità, senza paura. Considerato “un regista scomodo”, ha dovuto affrontare anche la censura. Della sua opera prima del 1968 Escalation, sul complesso rapporto tra un industriale e il figlio hippie (grande successo al botteghino), fu sequestrato il manifesto. Nel 1977 il suo documentario Forza Italia!, ritratto di trent’anni di potere democristiano, con la partecipazione anche di Aldo Moro, lo costrinse a “esiliare” in America. Riuscì a tornare a lavorare in Italia grazie a Papa Giovanni Paolo II, che apprezzò il suo film Jona che visse nella balena.
Al Bif&st il regista torinese, classe 1943, qui in veste anche di presidente di giuria della sezione Panorama internazionale, ha ricevuto il Federico Fellini Platinum Award for Cinematic Excellence. In una masterclass con il pubblico ha ripercorso alcune tappe della sua carriera, lunga oltre cinquant’anni, ricordando il suo lavoro con Marcello Mastroianni in Sostiene Pereira e le difficoltà con Harvey Keitel in Copkiller (L’assassino dei poliziotti). A Cinecittà News ha raccontato i suoi nuovi progetti: il film Hill of Vision, sulla storia dello scienziato Mario Capecchi, premio Nobel per la medicina nel 2007, e una serie su Alda Merini.
Faenza, al Bari International Film Festival ha ripresentato due suoi film, I Viceré e La verità sta in cielo. Il primo è tratto da un romanzo di Federico De Roberto e lei spesso attinge dai libri per raccontare una storia sullo schermo.
Nella letteratura cerco degli spunti per delle vicende che faccio mie. Talvolta mi dimentico anche degli autori. in fondo i libri hanno dei codici diversi da quelli del cinema. Trovai I Viceré un romanzo meraviglioso e pregnante e rimasi stupito del fatto che nessuno prima lo avesse trasposto. Certo dava un’immagine impietosa del nostro Paese, parlando del suo deterioramento. È un libro di un’attualità sorprendente.
Quanto, invece, fu complicato realizzare il film sul caso di Emanuela Orlandi?
Continuo a chiedermi come sia possibile che anche Rai Cinema abbia avuto il coraggio di finanziare un film così. Quella vicenda è una spina nel cuore. Ancora oggi io e la famiglia Orlandi facciamo delle ricerche per sapere la verità. Ma credo che il Vaticano sia responsabile della sua scomparsa. Alte sfere avrebbero voluto seppellire nell’oblio una vicenda che scotta. Il procuratore della Repubblica revocò il giudice istruttore che stava portando avanti la ricerca della verità, diventando poi procuratore in Vaticano. Trovo incredibile che a far luce su una questione così debba essere gente di cinema.
Oggi manca il coraggio in Italia di raccontare e produrre un certo tipo di storie?
Dopo l’epoca d’oro di Francesco Rosi e di altri registi che hanno fotografato la nostra realtà, il cinema italiano è caduto in una forma di narcosi. Dagli anni ’90 in poi quasi nessuno racconta l’Italia, perché la commistione tra il potere finanziario e quello tout court è talmente presente che impedisce ai produttori di attingere a delle forme di finanziamento una volta più accessibili. Un tempo raccontare certe cose in un Paese così complicato non era semplice, ma si faceva. Oggi il problema non sussiste più. Il cinema non dà quasi più fastidio, è diventato banale.
Anche il pubblico è cambiato?
Non è più quello di una volta. Oggi è frastornato e aggredito dalle piattaforme. Quante sono le sale rimaste? Roma ne avrà oggi una cinquantina, quando un tempo erano trecento.
Lei intanto continua a fare cinema e ha appena finito Hill of Vision. Come ha scovato la storia di Capecchi?
È stata la mia compagna e produttrice Elda Ferri a scoprirla causalmente. Lui fu premiato in Giappone dove portò con sé il cappello da alpino che gli regalò sua madre, dopo aver passato un periodo nei campi di concentramento.
Cosa l’ha colpita di questa vicenda?
È la storia di un bambino abbandonato in Italia sotto il fascismo che deve sopravvivere da solo, dopo che la madre americana è stata catturata dai nazifascisti, e fino ai cinque anni non riesce a fare un pasto caldo. Miracolosamente la donna ritorna dal campo di prigionia, prende il bambino e lo riporta negli Usa dove lo fa crescere dagli zii. Mario è analfabeta, ha problemi a essere accettato, i compagni lo prendono in giro, ma piano piano si fa strada nella vita e incredibilmente diventa un premio Nobel.
Il film si doveva chiamare Resilient. Come mai ha cambiato il titolo?
Perché è diventato il nome di un farmaco. Quella di Capecchi è la storia di una resilienza a tutte le avversità possibili e immaginabili. Un bambino così ha avuto una struttura molto resistente per riuscire a sopravvivere.
Cosa ha detto Capecchi del film?
È stato contento di sapere che lo avremmo fatto. Ho finito di montarlo pochi giorni fa, dunque lo deve ancora vedere. Non so come reagirà, soprattutto nel vedere l’attrice Laura Haddock che nel film interpreta sua madre Lucy. Lui conserva un baule pieno delle lettere e poesie della mamma che però non ha mai voluto aprire.
Quando vedremo nelle nostre sale Hill of Vision?
Penso il prossimo anno. Ora non è un buon momento per fare uscire il film. E poi vorrei presentarlo al Sundance Film Festival, visto che Capecchi vive a Salt Lake City.
La serialità, invece, le interessa?
Guardo molte serie. Mi appassionano. Ora sto lavorando a un progetto su Alda Merini, insieme ad Arnoldo Mondadori junior. Lei diversamente da come è sempre stata descritta, era una donna piena di ironia e sarcasmo. Doveva essere un film per la Rai, ma spero di realizzarlo in più puntate.
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