“Mi sono ispirato a una frase di Tonino Guerra che dice: ‘Franco si aggira in un labirinto che già contiene una parte di verità’. Poi il dedalo è una struttura molto usata da Rosi nella costruzione narrativa”.
Così il regista siciliano Roberto Andò (Il manoscritto del principe) spiega l’origine del bel titolo del documentario che ha dedicato a Francesco Rosi, Il cineasta e il labirinto.
Prodotto dalla Scuola Nazionale di Cinema, sarà proiettato questa sera in Campidoglio in occasione dell’80° compleanno del maestro del “cinema civile” italiano, autore di capolavori come Salvatore Giuliano, Le mani sulla città, Il caso Mattei.
“Oltre alle comuni radici meridionali, ci lega un rapporto di affinità e discendenza. Con Franco ho mosso i primi passi nel cinema” dice Andò, impegnato nella preparazione del secondo lungometraggio: un thriller prodotto da Fabrizio Mosca per Mikado.
Quali sono gli snodi centrali di “Il cineasta e il labirinto”?
Il film è una lunga conversazione con Rosi intrecciata con interviste ad amici e collaboratori. Mette insieme i frammenti della sua vita e attraversa tutta la sua cinematografia, dagli anni ’50 di La sfida fino ad oggi, dando il senso dell’opera di civilizzazione compiuta da un regista che ha sempre mantenuto vivo uno sguardo coerente e rigoroso sulla realtà. Parte dal dolcissimo pensiero di Franco nei confronti del padre, fotografo dilettante. Poi si sposta tra i luoghi del suo cinema, soprattutto la Sicilia, il set elettivo: dal Palazzo di Giustizia di Palermo alla Montelepre di Salvatore Giuliano fino alla tomba di Leonardo Sciascia nel cimitero di Racalmuto dove Franco ha deposto una rosa. Un omaggio per sottolineare la mancanza di quello che Pier Paolo Pasolini ha chiamato “un moralista civile”, una definizione che calza a pennello anche a Rosi. Tra loro c’era un grande sodalizio testimoniato anche dal film Cadaveri eccellenti.
Come definiresti il cinema di Rosi?
E’ il grande romanzo mai scritto sugli anni bui dell’Italia. Un viaggio tra le istanze perdute del paese che non ha ricevuto adeguate risposte dalla società: i mandanti della strage di Portella della Ginestra sono ancora ignoti così come il mistero della morte di Mattei è tuttora irrisolto. Per Rosi la realtà è sempre stata il punto di partenza da indagare attraverso racconti oggettivi e coinvolgenti.
Il critico Alberto Crespi sostiene che il “cinema civile” è il filone più rimosso dalla memoria del cinema italiano.
Sono d’accordo. In Italia negli ultimi anni c’è una sopravalutazione civettuola di filoni minori a discapito del cinema detto impropriamente “politico”. Una definizione riduttiva perché, come sottolineano Martin Scorsese e Marco Tullio Giordana nel mio documentario, quello di Rosi è un cinema di cui si ammira anche il valore formale e l’innovazione linguistica. Un cinema che si mimetizza con il documentario e lo reinventa mettendo al centro, come faceva il neorealismo, i grandi temi sociali. Non a caso Scorsese sottolinea di aver visto Salvatore Giuliano decine di volte prima di girare Toro scatenato.
Il tuo augurio per gli 80 anni di Rosi?
Franco chiude Il cineasta e il labirinto con una scherzosa divagazione sulla morte, stilema ricorrente nelle sue pellicole. Dice: “non accetto la morte: la mia riflessione sul potere e la criminalità è un modo per contestarla”. Spero di vedere presto un nuovo film di questo straordinario giovanotto di 80 anni.
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