E’ gioia pura e assoluta ascoltare e guardare la veterana Rita Moreno che canta, nostalgica, Somewhere in West Side Story. Il musical – di Leonard Bernstein, con libretto e parole di Arthur Laurents e Stephen Sondheim – che dal 1961 continua a incantare e catturare lo spettatore. E la versione contemporanea di Steven Spielberg, diciamolo subito, non ha nulla da invidiare a quella di Jerome Robbins e Robert Wise. Anzi, rilegge la rivalità tra gli Jets e gli Sharks alla luce del mondo attuale e di un molto pressante e molto presente desiderio di inclusione e di dialogo.
Da sempre Spielberg sognava un musical, genere che sua madre adorava, e adesso, a 75 anni, si cimenta con la favola (a lui più che mai congeniale) di Romeo e Giulietta nell’Upper West Side con la New York di fine anni ’50 e le sue trasformazioni dolorose (demolizioni, gentrificazione spinta) a fare da scenario alle coreografie sontuose e travolgenti e all’amore impossibile tra Maria (Rachel Zegler) e Tony (Ansel Elgort).
E Rita Moreno, per tornare all’incipit, racchiude un po’ tutto questo. Era Anita nella versione del ’61, è Valentina adesso che ha 90 anni, ovvero la moglie del droghiere wasp in una coppia multietnica (lui non c’è più, vive nella memoria di una foto in bianco e nero): il classicismo, l’integrazione fra culture, la capacità della musica americana di “sposare” ritmi e temi diversi, anche antitetici, e un cinema che non ha paura di essere romantico.
West Side Story inanella brani indimenticabili, uno dopo l’altro togliendo il fiato: Tonight, I like to be in America!, Maria, I Feel Pretty, Cool). Spielberg è fedele al musical del 1957 (molto rispettoso è il ri-arrangiamento di David Newman, mentre le coreografie di Jerome Robbins sono decisamente accelerate da Justin Peck andando incontro al gusto contemporaneo: si veda la scena della festa al college ma anche la versione tutta metropolitana di America). Nello stesso tempo il regista premio Oscar lascia la briglia sciolta all’inventiva e si concede, una volta di più, una regia assoluta: sì, il film è proprio una lezione di regia, con l’uso sapiente, avvolgente, entusiasmante della macchina da presa, coreografica anch’essa.
La sceneggiatura di Tony Kushner sottolinea tutti elementi già presenti nell’originale, anche perché costanti nella società americana: il razzismo, la ricerca del proprio spazio, il controllo, la violenza, il machismo, le gang, la ‘cultura’ dello stupro contro cui la Valentina di Rita Moreno si scaglia con autorevolezza in sottofinale, dopo che Anita (la spericolata Ariana DeBose) è stata aggredita dal branco. Dove invece si sentono maggiormente gli echi dello spirito contemporaneo è nella scelta della lingua – con lo spagnolo usato al pari dell’inglese, e senza sottotitoli – e degli interpreti, visto che sono latinos tutti i portoricani con David Alvarez nel ruolo di Bernardo e la citata Rachel Zegler, incantevole esordiente che prende il ruolo di Natalie Wood.
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