Che ruolo ha una retrospettiva all’interno di un grande festival internazionale di cinema? Un tempo, quando i festival presentavano pochi e selezionati film in concorso e qualche evento speciale, questo era il luogo della memoria, della storia, della critica.
Ma da quando i festival sono diventati – come ama dire anche il neodirettore della Berlinale Dieter Kosslick – “dei canali di comunicazioni, dei flussi di immagini ed idee”, spazi iperaffollati di scoperte, conferme, blockbusters e anteprime commerciali, le retrospettive si sono spesso ridotte a deserti luoghi di culto, foglie di fico artistiche e un po’ inutili. Tant’è che spesso sono state soppresse. Berlino in verità ha sempre fatto eccezione, potendo rivolgere la sua offerta a una grande città piena di giovani e cinefili, insomma un luogo potenzialmente ideale.
Eppure Dieter Kosslick e il Filmuseum di Berlino hanno sentito l’esigenza di una proposta radicalmente nuova, nei contenuti e nella forma. Se funzionerà – almeno a sensazione – avremo a che fare con un modello originale, primo segno di una trasformazione che potrebbe contagiare beneficamente anche altri eventi, da Cannes (grandi manovre in corso) a Locarno (già attivo su questa strada) a Venezia (dipende da chi la guiderà).
Si comincia dal senso di “European 60’s. – Rivolta, Fantasia & Utopia”, ovvero il titolo della gigantesca rassegna, composta da più di 60 titoli provenienti dalle cineteche di tutta Europa. La sorpresa – premeditata – è che i capolavori si confondono con i film di genere, i documenti con le opere di consumo create sull’onda di una moda o di un filone e invece oggi efficaci testimoni del sapore dell’aria del tempo.
Gli anni ’60 non sono solo “prima” e “dopo” il ’68: sono gli anni dell’inquietudine, del boom, delle trasformazioni sociali, delle rivoluzioni e della guerra fredda, delle nouvelles vagues ad est come ad ovest e di quel grande “collettivo della repubblica cinema” che alla Mostra di Pesaro trovò la sua prima casa. E pesariana in qualche modo è anche questa retrospettiva se si guarda a nomi come Yilmaz Guney, Istvan Szabo, Jorge Grau, Vittorio De Seta, Carlos Saura e Alain Tanner, Miklos Jancso e Jerzy Skolimovski, Karoly Makk e Gian Vittorio Baldi, Lindsay Anderson o Ivan Passer, Bo Widerberg o Otar Iosseliani, Straub o Makavejev, Godard o Bertolucci, Taviani o Tarkovskij, Fassbinder o Kluge, Goretta o Zanussi.
Naturalmente i maestri consacrati non mancano, da Antonioni a Bunuel, da Fellini a Rohmer, fino a Viva Maria di Louis Malle che, non per caso, presta il suo nome al luogo in cui a Berlino la retrospettiva si spiegherà al pubblico – presumibilmente giovanissimo – che affollerà le sale. Un gigantesco happening che avrà appuntamenti quotidiani con lectures, dibattiti, confronti e interviste in pubblico che saranno la vera faccia di questa retrospettiva nel segno di quel festival del dialogo, di quel flusso costante di idee e progetti per il futuro dell’immagine in movimento e delle società che ad essa danno ragione e alimento.
In questo contesto l’Italia avrà un ruolo di assoluto rilievo; a ridare freschezza e lirismo alla proiezione di Fellini 8 e ½ sarà Claudia Cardinale, premio speciale alla carriera di questa prima rassegna firmata Kosslick, e la Deutsche Kinematek ha collaborato firmando la retrospettiva con uno spirito nuovo, direi più “movimentista” anche se c’è da scommettere che il catalogo che accompagnerà la selezione sarà – come sempre – un vero e proprio strumento di storia e critica del film.
Ma non c’è solo la luce di Claudia nel programma legato alla retrospettiva. Nel segno di parole d’ordine come libertà, rivolta, utopia, le stesse che alla fine di quel decennio irripetibile porteranno allo slogan della “fantasia al potere”, il cinema italiano è il più rappresentato insieme alla Francia nel quadro delle società occidentali. Molti titoli, spesso inattesi come Fuoco o Il grande silenzio e un’idea trasversale di quegli anni che si deve in buona misura a Adriano Aprà le cui omissioni (da Bellocchio a Pontecorvo) susciteranno dibattiti, speriamo accesi, ma hanno il pregio di rilanciare una riflessione che non deve essere solo storica, poiché la scommessa di quel decennio è anche la scommessa dell’inquieto mondo europeo d’oggi. Sono cambiate molte cose, ma non è mutato il desiderio, anzi la necessità di utopia.
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