Si potrebbe cominciare così: cosa hanno in comune Steven Spielberg, Peter Jackson, Joe Dante, Tim Burton, Nick Park, James Cameron e Guillermo del Toro? Oppure domandandosi perché Ray Bradbury e John Landis parlano della stessa persona come del loro migliore amico. E infine: perché Tom Hanks, in occasione dell’Oscar onorario del 1992, si spinse a dire: “Molti citano Casablanca o Quarto potere, ma io dico che è Gli Argonauti il più grande film di sempre”.
Il comune denominatore che tiene insieme i maestri del fantasy e della fantascienza ha un nome sconosciuto ai più, Raymond (Ray) Frederick Harryhausen, nato a Los Angeles da immigrati tedeschi il 29 giugno 1920. Un epitaffio ideale per il creatore dei più stupefacenti effetti speciali, il genio della stop motion applicata al live action fin dagli anni ’50 lo ha pronunciato Terry Gilliam: “Quel che oggi facciamo digitalmente con i computer, Ray lo faceva digitalmente molto prima e senza i computer. Soltanto con le sue dita”.
Sappiamo bene che la Storia – anche quella del cinema – la fanno i vincitori; ma siccome l’immagine in movimento è creatività e poesia in simbiosi con tecnologia e industria, ci sono momenti e protagonisti che solo nell’immediato restano fuori dalle luci della ribalta ed hanno poi un adeguato risarcimento. I Lumière inventano il cinematografo, ma ci sarebbero arrivati senza mettere le mani sui brevetti di Edison? Hollywood diventa la mecca del cinema grazie a D.W. Griffith, ma cosa avrebbe saputo inventare senza Giovanni Pastrone e il suo Cabiria? Spielberg conquista il cuore degli spettatori con E.T., ma sarebbe stato capace di farlo senza Carlo Rambaldi?
Fin da giovanissimo, quando girava i suoi primi corti con dinosauri pupazzo da lui stesso costruiti, Harryhausen sognava in grande; già allora faceva tutto da solo, costruiva, modellava, girava fotogramma dopo fotogramma e cercava l’effetto naturale. Sarebbe stato lo stesso per tutta la vita, sempre in controllo delle storie, della tecnica, dei suoi “mostri”.
Peccato che per le ferree leggi della Director’s Guild dovesse essere sempre affiancato da un regista “ufficiale”, sicché nessuno dei suoi capolavori porta il suo nome “sopra il titolo” (come si dice a Hollywood) e risulta firmato da decorosi artigiani come Eugène Lourié, Robert Gordon, Irwin Allen, Nathan Juran, Jack Sher, Don Chaffey.
A questo punto – almeno i più giovani – hanno diritto di saperne di più, ma una scorribanda nel Web sarà puntuale conferma che sto parlando di un vero genio: Il risveglio del dinosauro (1953), Il settimo viaggio di Sinbad (1958), I viaggi di Gulliver (1960), Gli argonauti (1963), Un milione di anni fa (1966), Scontro di titani (1981); titoli che possono far sorridere per la semplicità delle storie e la magia artigiana dell’inverosimile. Provate però voi a far interagire i protagonisti con un’armata di scheletri come Ray fece negli Argonauti e da cui traggono ispirazione Sam Raimi per L’armata delle tenebre e Peter Jackson nell’ultimo capitolo del Signore degli anelli.
Sapete chi ha inventato lo “split screen” fondendo poi a Passo Uno i suoi mostri in miniatura con gli attori in carne ed ossa (tra gli altri Raquel Welch) e costruendo lunghissime sequenze molto più realistiche dei fondali da usare in studio? Sempre lui, il maniacale perfezionista che poteva impiegare mesi per una sola sequenza e che realizzava tutto in famiglia: il padre costruiva gli scheletri dei pupazzi, la madre i costumi o le pelli, Ray muoveva le creature.
“Niente a che vedere con l’animazione a Passo Uno – diceva Harryhausen -, quelli sono soltanto simpatici pupazzi”. Lo diceva con un sorriso guardando i capolavori di Tim Burton e della Pixar che gli resero invece omaggio da La sposa cadavere a Monsters & Co.
La biografia di Ray Harryhausen è la perfetta dimostrazione di come il talento vada coltivato. Si innamora di quel che sarà il suo mestiere vedendo al cinema King Kong e si danna per conoscerne l’animatore, il grande Willis O’Brien. Gli mostra tutto fiero i suoi primi corti e riceve una doccia gelata: il maestro lo spedisce a studiare disegno e scultura di sera mentre di giorno frequenta i corsi di cinema alla University of South California. Poi lo farà debuttare alla Warner proprio col regista di King Kong, Ernest B. Schoedsack (Il re dell’Africa del 1949 tratto da un suo soggetto).
Durante la guerra Ray si fa assumere nel corpo dei cineoperatori alle dipendenze di Frank Capra e torna a casa con una vagonata di pellicola di scarto in 16mm, grazioso dono dell’esercito; userà quella piccola fortuna per i successivi lavori e nel 1953 ricorrerà all’amico di scuola Ray Bradbury per Il risveglio del dinosauro vagamente ispirato a un racconto dello scrittore. Qui brevetta per la prima volta la sua tecnica dello split screen chiamata “Dynamation” e ottiene il primo successo personale.
Ma è passando alla Columbia, dove trova un compagno d’avventure nel produttore Charles H. Schneer, che diventa il maestro della fantasia sullo schermo. I due cominciano nel 1955 con Il mostro dei mari, volano nello spazio, scendono nelle viscere della terra con altrettanti successi e approdano ai lidi di Sinbad e Gulliver.
Ray Harryhausen è morto da cittadino inglese (aveva preso la doppia nazionalità negli anni ’60, trasformandosi in un quieto gentiluomo britannico) a 91 anni nel 2013. Si è sposato una sola volta, con Diana Linvingstone Bruce, con lei ha avuto una figlia Vanessa che oggi dirige una Fondazione a suo nome e un museo dove si possono vedere molti dei suoi magnifici mostri in miniatura. Ha coronato il suo sogno di produttore col nome sopra il titolo solo nel 1981 con Scontro di titani, prodotto insieme a Schneer e finalmente dotato di un budget di “serie A”; ma fino all’ultimo ha giocato con le sue invenzioni seguendo personalmente la colorizzazione dei suoi primi, magistrali lavori. Uomo d’altri tempi oggi appare un titano del cinema. “Senza di lui – ha detto George Lucas – probabilmente Star Wars non sarebbe mai esistito”.
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