L’osceno è nell’occhio di chi guarda. O meglio nella società contemporanea, affetta da ipocrisie, razzismo, sessismo, classismo. O meglio nella storia dell’umanità e nei suoi infiniti orrori. Bad Luck Banging or Loony Porn è il film di Radu Jude che ha vinto l’Orso d’oro alla 71ma edizione del Festival di Berlino. Dal 16 aprile sarà distribuito da Lucky Red su MioCinema in parallelo a una personale di quattro film del cineasta romeno, poco conosciuto in Italia al grande pubblico ma ospite spesso del Trieste Film Festival, che cura appunto questa retrospettiva.
Il nuovo film riprende molti aspetti interessanti del suo cinema – dallo sguardo ironico e addirittura comico alla satira sociale con raffinati strumenti di pensiero all’uso sapiente di materiali d’archivio. Certo, potrebbe risultare spiazzante il sesso esplicito che si vede nella prima scena, quella in cui una professoressa di liceo e suo marito si riprendono con una videocamera mentre fanno sesso. O magari a colpire lo spettatore sarà la struttura ‘destrutturata’, con una divisione in tre parti sorprendente: nella prima seguiamo la protagonista Emilia Cilibiu (Katia Pascariu) che cammina nella Bucarest di oggi piena di cantieri e folla e con la pandemia in corso; la seconda è un collage di citazioni e aneddoti, spesso agghiaccianti, con riferimenti al nazismo e alla dittatura romena; la terza è gestita come un sit-com con il processo inscenato nel cortile della scuola dove genitori e preside devono decidere se la professoressa è degna di restare in cattedra. Il video dell’inizio nel frattempo è stato infatti condiviso sui social ed è diventato virale tanto che anche alcuni alunni l’hanno visto e mostrato ai genitori.
Il dibattito tra i genitori/accusatori (con qualche voce fuori dal coro) è uno spaccato impietoso di una classe media ipocrita e Radu Jude insiste molto sull’aridità della società contemporanea, che viene mostrata nella prima parte attraverso scene di ordinaria inciviltà (dalla donna che vuole cacciare una cliente ‘povera’ che blocca la fila al supermercato perché non ha abbastanza soldi al Suv parcheggiato sul marciapiede in barba ai passanti, con insulti verso chi protesta). Così nella seconda parte il cinema diventa, sulla scorta del teorico Siegfried Kracauer, l’unico modo per “guardare gli orrori della Storia senza restare paralizzati dallo sguardo della Medusa con lo schermo che agisce come lo scudo di Atena”. Ma si scopre anche che il 55% degli uomini considera lo stupro giustificabile, che i bambini sono prigionieri politici dei loro genitori e che la parola più cercata su google è pompino (la seconda è empatia). Donne, rom, ebrei, animali sono vittime della crudeltà del maschio dominante.
Quanto il suo film riflette la Romania contemporanea e quanto invece l’essere umano nel suo complesso, anche al di là delle epoche?
Il mio film è un singolo punto di vista sulla Romania, come sull’Europa e sui paesi ex comunisti, ma non esaurisce il giudizio, così come Accattone di Pasolini non raffigurava necessariamente tutta la società italiana degli anni ’60, che era anche La dolce vita.
Non possiamo non chiederle una definizione di osceno visto il punto di partenza e di arrivo del film.
Certamente volevo mettere in dubbio che una scena di sesso tra due adulti consenzienti potesse esserlo. Per me osceno è l’abuso di potere, l’uso del potere contro un essere umano per umiliarlo, sfruttarlo, distruggerlo.
L’Italia è il primo paese dove Bad Luck viene mostrato e in versione integrale. Teme che il film possa incorrere nella censura in qualche Paese o in televisione?
Immagino che potrà capitare. Con la mia produttrice abbiamo commentato: ‘ci sono film dove uno ammazza cento persone con un mitra ma passano tranquillamente in tv, mentre due persone che fanno l’amore destano scandalo’. Ma è così, non posso farci niente. Ho pensato che si potrebbe ovviare in questo modo, oscurando la scena e mettendo un QR Code in modo che gli spettatori possano vederla su internet. Sarebbe coerente con il film.
Come ha costruito la parte centrale, quella degli aneddoti e delle citazioni?
E’ un montaggio di frasi di filosofi, scrittori e poeti, ma ci sono anche frasi prese da internet. Il cinema è pensiero, è un modo per comprendere il mondo e vederlo con occhi nuovi.
Lei ha una cultura cinematografica e filosofica vastissima. A quali correnti si sente più vicino?
Mi considero un allievo di Rossellini, si parva licet. Amo il neorealismo, considero anche Gianikian e Ricci Lucchi come maestri. Nella scena iniziale, con la macchina da presa che segue la professoressa che cammina per Bucarest, ho innestato la finzione su un background reale. C’è la Nouvelle Vague e la lezione di Germania anno zero.
Cosa voleva mostrare della Bucarest contemporanea? Il caos, la deregulation, l’odio di classe?
Bucarest ha i problemi di tante altre grandi città. Ma quello che mi interessava era mostrare i ‘valori’ della nostra società. Trent’anni dopo la rivoluzione e la caduta di Ceausescu, cioè dopo trent’anni di democrazia e libertà, abbiamo un sistema di classe rigido, un individualismo sfrenato, una totale incuria verso l’ambiente. La città siamo noi che l’abbiamo fatta e non abbiamo più la scusa della dittatura.
Rispetto alla pandemia il film è un instant movie.
Il film è stato pensato prima della pandemia ma poi ci si è trovato dentro. Solo la prima scena, quella dell’amplesso, è stata girata, per fortuna, prima delle restrizioni. Da noi non c’è quella dittatura sanitaria di cui parla Giorgio Agamben. In Romania non si fa che litigare sui mezzi pubblici perché molti non vogliono mettere la mascherina. Ma il film nasce piuttosto da un altro libro, The Pornographic Age di Alain Badiou, dove mi ha interessato il concetto della fine della sfera privata perché tutto è diventato pubblico. Sui social vedo continuamente mie foto scattate e poi condivise, non da me. Anche le voci fuori campo che si sentono nella terza parte del film sono come i commenti a caldo sui social, i like o dislike, la rappresentazione di un’interazione velocissima e perentoria.
Nella terza parte la protagonista prende la parola e argomenta con strumenti molto solidi contro i suoi accusatori, la sua dialettica è ferrea.
Per me è un modo di reagire al minimalismo di molto cinema contemporaneo, dove spesso i personaggi non sanno quasi parlare. I dialoghi sono rimasti relegati al teatro, ma io non condivido e voglio riportare la dialettica al cinema.
La professoressa è accusata di aver perso credibilità. Cosa è oggi la credibilità?
E’ uno degli argomenti del film. Viviamo in una società dove si fatica molto per questo. Soprattutto i giovani vivono una tremenda pressione, e lo vedo in mio figlio di 16 anni, sono sempre alla ricerca dell’approvazione. Si viene subito giudicati, accusati, bannati non appena si esprime un’opinione leggermente difforme. I commenti sono violenti e riguardano questioni politiche, ideologiche ma anche estetiche. E’ capitato anche ai miei film di essere additati. Invece è importante esprimere il libero pensiero.
Come è arrivato alla struttura così libera e in qualche modo disorganica del film?
Sono poco soddisfatto dal cinema narrativo convenzionale, che segue una drammaturgia di stampo hollywoodiano. Per certe storie funziona, ma non per tutte. Mentre ragionavo su questo, ho letto un libro sulla storia della pittura dove si diceva giustamente che spesso gli schizzi e i lavori preparatori sono più moderni delle opere finite. Questa idea mi ha illuminato. E’ vero, in un film finito devi togliere molte cose, invece una struttura imperfetta è più aperta, non racconta solo la storia della professoressa ma raccoglie una visione più vasta.
Pensa che il suo sia un film femminista?
Il femminismo comprende tante diverse posizioni e non ho la presunzione di dirmi femminista perché non lotto in prima persona per queste idee anche se sono vicino alla causa delle donne e credo che in Romania ci sia un enorme bisogno di femminismo perché la nostra è una società molto conservatrice.
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