Un super cast con i francesi Léa Seydoux e Louis Garrel, l’olandese Gijs Naber, gli italiani Sergio Rubini e Jasmine Trinca impreziosisce il nuovo film di lldikó Enyedi (Orso d’oro a Berlino con Body and Soul nel 2017) che segna per la regista ungherese un salto internazionale. Storia di mia moglie, coproduzione italiana con Palosanto Films e Rai Cinema, reduce dal concorso di Cannes, ora in sala con Altre Storie dal 14 aprile, è un racconto romantico e avventuroso, che si sviluppa su una durata di quasi tre ore, traendo ispirazione dal romanzo La storia di mia moglie di Milán Füst (1888-1967).
Lo scrittore, connazionale di Enyedi, ci trasporta negli anni ’20 tra Parigi e Amburgo per inseguire un pugno di personaggi: innanzitutto il capitano Jakob Störr (Gjis Naber), colui che racconta la storia dal suo punto di vista, un lupo di mare che, sentendosi depresso o forse invecchiato, decide di impalmare la prima donna che entrerà nel caffè in cui sta chiacchierando con l’amico Kodor (Rubini, leggi la nostra intervista), traffichino, imbroglione, tentatore, sempre in cerca di denaro e di trame da tessere. Ed ecco apparire, come per un sortilegio, la bellissima e misteriosa Lizzy (Seydoux) che non sembra per nulla turbata dalla repentina proposta di matrimonio e anzi appare fin da subito complice, anche della strana prima notte di nozze, in cui i due giocano a poker strip.
Abituato ad avere in pugno le situazioni e comandare, Störr è spiazzato dall’imprevedibile Lizzy e perde la rotta. Non riesce mai a capire se lei lo ami davvero o finga, se lo tradisca con l’amico Dedin (Garrel) con cui la spia ridere di gusto, e come passi le serate tornando a tarda notte a volte ubriaca o inebriata. Insomma, si concretizza la facile profezia di Kodor, che è l’anima nera del film, e la gelosia si impossessa sempre più dell’uomo. Che viene anche coinvolto in un affare da Kodor e dalla sua complice Madame Cobbet (Trinca).
“Finora ho scritto le mie sceneggiature film basandole su mie idee originali, per la prima volta mi cimento con un romanzo, con l’intenzione di servire i pensieri e la mente di uno scrittore che ammiro profondamente fin dalla mia adolescenza”, spiega la regista. E prosegue: “Milán Füst ci offre una bella trama ricca di colpi di scena, sorprese, un giro sulle montagne russe delle emozioni. Ci guida attraverso l’indagine emotiva di Jakob Störr con la suspense di un buon racconto poliziesco. Voglio trascinare lo spettatore nelle profondità del mondo dell’affascinante capitano di vascello naufragato sulla terraferma. La somma totale degli elementi importanti sarà compresa unicamente attraverso questo gigante goffo dal cuore grande in cui mi identifico”.
Sontuoso, sensuale, un po’ decadente, il film si fida della messinscena precisa, della ricostruzione d’epoca e della bellezza dei suoi personaggi che sono un po’ marionette nelle mani della regista. Non ci sono cadute di stile, a dire il vero, ma neanche vibrazioni profonde e tutto scorre attraverso sette capitoli, fino a un epilogo che getta un’aura di affascinante, malinconica indefinitezza su una vicenda già di per sé, volutamente, oscura. Come se tutti non fossero altro che fantasmi di epoche svanite. Marionette appunto.
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