PUPI AVATI


“Di mestiere non faccio il presidente di Cinecittà Holding, ma il regista”. Questo Pupi Avati l’ha detto subito, eppure non ci ha pensato un attimo ad accettare la proposta del ministro Urbani: “sapevo di essere l’uomo adatto, con 33 anni di cinema al mio attivo e godendo della stima dei colleghi”. Il momento era perfetto anche sul piano personale, con un film già pronto e un altro (Rivincita di Natale) in dirittura d’arrivo. Il cuore altrove, tra l’altro, gli sta dando enormi gratificazioni: “Ricevo tre/quattro lettere al giorno, lettere molto personali e commosse… ho la sensazione di aver raggiunto un pubblico diverso dall’usuale, un pubblico che non andava al cinema da molto tempo. Era dall’epoca di Una gita scolastica che non mi sentivo così amato”.
Così, mentre l’amore infelice di Neri Marcorè e Vanessa Incontrada emoziona anche i compratori dell’American Film Market, lui, dal secondo piano della palazzina di Via Tuscolana, programma il futuro: “questi sono mesi di fuoco, occorre impostare il lavoro, la Holding è una testa pensante, il corpo sono le varie società collegate, dal Luce a Italia Cinema”, dice. E su Italia Cinema fa riflessioni lusinghiere: “Finora ha svolto un ruolo esplorativo, ora può finalmente realizzare risultati concreti di visibilità. La semina è stata buona e i tempi sono maturi per la raccolta. Quattro anni alla Findus mi hanno insegnato che non si possono pretendere risultati prima di aver investito e consolidato”. Ma è dalla scomparsa di Alberto Sordi che parte la nostra conversazione: attore-simbolo di un cinema italiano che non esiste più.

Con personaggi come Sordi svanisce un cinema italiano che aveva un impatto fortissimo, come ha dimostrato l’emozione attorno a questo lutto.
Sordi apparteneva a un cinema italiano che è stato centrale nella vita culturale del paese, ha raccontato l’Italia degli anni ’50-60 come meglio non si poteva. Eppure temo che da tempo non fosse più considerato un mito dai giovani. L’Europa si è spersonalizzata in molti modi, ogni giorno ci allontaniamo dalle radici per un presente sempre più neutro. I ventenni – e lo dico anche guardando i miei figli – sono identici in tutto il mondo e lo saranno ancora di più tra una decina d’anni, quando l’inglese sarà la lingua di tutti.

La globalizzazione le fa paura?
Non ho pregiudizi e non voglio attaccarmi ai luoghi comuni. Ma intravedo una perdita d’identità.

Però film come “Respiro” o “L’imbalsamatore”, profondamente radicati in una realtà locale, hanno successo all’estero.
Ma sono eccezioni. E poi Respiro, che è piaciuto in Francia per la sua raffinata particolarità, non ha avuto un gran successo sul mercato domestico. Come Angela del resto, che ha dato minori risultati in patria anziché fuori dai nostri confini… Lo dico con rammarico, sia chiaro.

Allora qual è il cinema italiano da sostenere?
E’ la prima domanda che mi sono posto arrivando a Cinecittà. Tutti noi parliamo di cinema, ma cosa intendiamo per cinema? Non abbiamo tutti la stessa idea: c’è il cinema anni ’70, ideologizzato e d’autore, che ha fatto di tutto per svuotare le sale; c’è il cinema che cerca di orecchiare gli americani con meno soldi e meno mezzi, poi c’è un cinema che è testimone della nostra identità ma al tempo stesso preoccupato di ristabilire un rapporto con il pubblico.

Impresa difficile?
Siamo al 22% del mercato, mettendoci dentro i film di Natale. E’ tempo di produrre un’inversione di tendenza e immaginare un prodotto popolare, che piaccia al pubblico. Anche se i miei colleghi non vogliono ammetterlo, questo è un mestiere in cui ci si sporcano le mani. Un budget da tre miliardi di vecchie lire misura un immaginario da tre miliardi…

Il cinema italiano non si sente un’industria. E forse non lo è.
Non lo è, ma potrebbe recuperare quella dimensione, che in passato aveva. Il cinema d’autore, un’esperienza che ho condiviso, ha prodotto segnali di ritorno negativi. Mancano i generi e oggi ognuno è il genere di se stesso: Moretti, Olmi, Amelio. Poi si è fatto di tutto per distruggere lo star system, perché l’attore offusca l’autore. Si è persa la specificità di attori come Sordi, appunto, che erano mediatori delle idee di sceneggiatori e registi verso il pubblico.

Le star sono televisive, come insegna Muccino.
Sì, ma demonizzando la televisione, abbiamo lasciato spazio a chi l’ha gestita in modo scandaloso. Eppure un film incontra il paese reale solo quando va in onda alle 20,30: quella è l’Italia.

In questo quadro, tutt’altro che consolante, come si inserisce la Holding?
Il documento d’indizzo del ministro contiene, a mio avviso, un punto chiave: ridare spazio, ruolo e visibilità al cinema italiano nel mondo. Ma per fare questo bisogna prima che il nostro cinema torni ad avere un rapporto fiduciario con il popolo italiano. Non si può esportare un prodotto che è stato rifiutato nel proprio paese. Salvo miracoli.

Cosa rimprovera ai suoi predecessori?
Niente, hanno lavorato bene. Però in modo autoreferenziale, parlando di cinema solo a chi fa cinema. Noi dobbiamo invece arrivare alla gente.

Come?
Con strumenti di ogni tipo. Compresi gli sms.

Cosa dice delle polemiche sul cinema finanziato dallo Stato?
Sono sacrosante. Le scelte delle commissioni non erano espressione di una strategia ma di opinioni e gusti personali. Una squadra che non ha una strategia non può vincere la partita.

Qual è la strategia dei nuovi allenatori?
Intanto non sostituirsi all’industria privata: cosa vai a insegnare a chi produce Natale sul Nilo? Lo Stato sosterrà il prodotto di qualità a patto che abbia un pubblico, oppure i capolavori riconosciuti, o ancora i giovani autori ma solo se dietro c’è un produttore che possa indirizzarli. Altrimenti abbiamo il classico articolo 8 rifiutato da tutti i distributori ed ereditato purtroppo dal Luce.

A proposito di capolavori, quali sono gli autori che la toccano nel profondo?
Sicuramente Olmi, dopo Il mestiere delle armi ho sentito il bisogno di chiamarlo e ringraziarlo. E poi Scola: mi è molto vicino nella sua visione dell’essere umano, anche se non è credente.

Ritiene sufficienti le risorse della Holding?
Il cinema, rispetto ad altri comparti dello spettacolo, non è stato penalizzato nel bilancio generale dello Stato proprio grazie all’impegno del ministro: sarebbe ingiusto chiedere ancora. Però di fronte a strategie e risultati eccezionali credo che potremmo osare qualcosa di più, magari da fonti private.

autore
28 Febbraio 2003

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