Pet Sematary, il romanzo di Stephen King, può definirsi strutturalmente come un dramma familiare con elementi horror e fantastici, e la cifra stilistica ‘realistica’ è sempre stata una delle principali frecce all’arco dello scrittore di Portland. Il canovaccio non era nuovo: già, ad esempio, ne ‘La zampa di scimmia’, racconto breve di W.W. Jacobs, si vedevano due anziani genitori riportare in vita l’unico figlio perso drammaticamente, affrontando le conseguenze del caso. Poi ci fu Zeder di Pupi Avati, in cui molti riscontrano grandi similitudini col romanzo di King (improbabile una ‘copia’ diretta, dato che sono entrambi datati 1983), ma soprattutto col film che ne fu tratto da Mary Lambert nel 1989 (e qui le vicinanze di fanno più tangibili e concrete, soprattutto per certe inquadrature e per il finale che in effetti sembrano presi pari pari dal film nostrano), che ebbe anche un seguito meno fortunato, del 1992, diretto dalla stessa regista.
A suo modo, si tratta comunque di un cult. La trama, per chi non la conoscesse, ruota attorno a un vecchio cimitero indiano il cui terreno ha la proprietà di riportare in vita chi vi viene sepolto. Si parte con il gatto investito da un’auto, ma quando la tragedia tocca direttamente una famiglia che si è trasferita nelle vicinanze, il tentativo di fare l’esperimento con soggetto umano, in quel caso il figlioletto Gage, porta a tragiche conseguenze. Molti lo ricordano con affetto soprattutto per gli spaventi provocati dal personaggio di Zelda, la sorella moribonda della protagonista femminile, che torna regolarmente a tormentarla come uno spaventoso fantasma del senso di colpa. Tuttavia i fan di King sono intransigenti, e non hanno mai perdonato al film della Lambert alcune libertà, tutto sommato minori, che la pellicola si era presa rispetto al romanzo.
Ebbene, in quest’ottica, risulta difficilmente comprensibile la scelta operata da Kevin Kölsch e Dennis Widmyer per il nuovo adattamento in uscita il 9 maggio con Fox, ovvero di seguire pedissequamente il libro fino a circa metà film e poi sovvertire completamente ruoli e rapporti tra i personaggi, con una “reimmaginazione” a conti fatti piuttosto forzata che sembra dettata dalla moderna ansia da spoiler e dall’esigenza di dover ‘stupire’ a tutti i costi lo spettatore con ‘quello che succede su schermo’ piuttosto che con il modo in cui viene raccontato. Ci si sarebbe aspettati un tentativo di maggiore fedeltà, ma difficilmente i Kinghiani resteranno contenti. Agli altri resta il dramma e un paio di sequenze di buona fattura – tra cui quella conclusiva – ma di spaventi veri ce ne sono pochi.
“Eravamo molto nervosi a riguardo – ha dichiarato il produttore Lorenzo di Bonaventura a ‘Entertainmente Weekly’ – Sono molto protettivo nei confronti dei film, ma è giusto che si provino nuove esperienze ogni volta. I registi hanno ponderato molto bene la scelta“, che certamente dimostra un certo coraggio oltre che una bella faccia tosta. Non possiamo che augurargli in bocca al Lupo, abbiamo impressione che ne avranno bisogno.
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